Lo sfogo di Spaccarotella: "In questo Paese nessuno vuole la verità"

06.12.2010 17:20 di  Federico Farcomeni   vedi letture
Fonte: Giornalettismo/lalaziosiamonoi.it
Lo sfogo di Spaccarotella: "In questo Paese nessuno vuole la verità"

Dopo la condanna per omicidio volontario, Spaccarotella decide di far finta di non aver capito perché (prassi giudiziaria, ndr). “In questo Paese non c’è verità …nessuno vuole dire la verità. I morti sono santi”. E’ lo sfogo del poliziotto Luigi Spaccarotella, condannato in appello a 9 anni e 4 mesi di carcere per l’omicidio volontario di Gabriele Sandri. In un’intervista a ‘Oggi‘ (settimanale in uscita mercoledì, ndr) – il poliziotto dichiara tutto il suo sconforto e la sua rabbia. “Sono un padre di famiglia, ma di me e dei miei figli non importa niente a nessuno”, sostiene Spaccarotella in un’affermazione che pare piuttosto senza senso: fosse anche poligamo e l’uomo più fertile dell’universo, questo non lo autorizzerebbe a mettere in pericolo le vite altrui.

LA RICOSTRUZIONE – Adesso so che non rientrerò più in polizia – aggiunge – So che sono stato abbandonato da tutti anche da chi credevo amico … sono scomodo, hanno paura di aiutarmi, di schierarsi con un perdente, con chi è stato giudicato ancora prima della sentenza. Questa sentenza era già scritta … sono stato condannato quel giorno, al casello di Arezzo”, dice ancora Spaccarotella. Che non rientri in polizia un condannato per omicidio è una semplice questione di giustizia. Se c’è qualcuno che non è stato condannato ad Arezzo è proprio lui, anzi: quando ancora non erano uscite le circostanze dell’evento c’era già chi giustificava o scusava quanto accaduto prendendosela con “i tifosi”, gli “ultras” e così via, confondendo quanto accaduto dopo con quello che è successo ad Arezzo. Da allora i divieti per le trasferte peraltro si sono intensificati. Il focus - lo ricordiamo nitidamente - si spostò dall'omicidio alle intemperanze di ultras e tifosi che sfogavano la loro rabbia per l'ingiustizia di una morte assurda. Si cercò di spostare l'attenzione dall'azione alla reazione. Secondo i difensori di Spaccarotella quanto successo ad Arezzo era qualcosa di puramente accidentale: all’agente era partito un colpo mentre correva dopo averne sparato un altro in aria per fermare un’automobile che scappava dopo una rissa tra tifosi laziali e juventini in autogrill. Secondo cinque testimoni che assistevano alla scena, le cose non sono andate così: «Vidi il poliziotto cercare la mira per cinque secondi a braccia tese, poi esplose il colpo verso l’auto in movimento», fu la deposizione più robusta, quella di Keiko Korihoshi, guida turistica giapponese. Più robusta perché altre vennero contestate nel corso del dibattimento per motivi risibili, come che uno dei testimoni era tifoso della stessa squadra del morto. Al giapponese non potevano mettere le bandierine della Lazio, eppure il giudice di primo grado non lo considerò credibile. Quello di secondo, gentilmente, ha riportato la logica nei tribunali. E adesso Spaccarotella se ne lamenta.

Spaccarotella sostiene di avere accanto la moglie, la sorella e i genitori. Nessun altro. Teme l’arresto (“Non so neanche dove dormirò stanotte. O se domani dormirò a casa”) e nutre timori anche per la propria incolumità. La fine dell’intervento di Spaccarotella è particolarmente interessante: “Anche in questi mesi, sono stato un poliziotto comunque, sempre: lo scorso agosto, mentre ero fuori col cane, un ragazzo di colore ha cercato di forzare il lucchetto di un’edicola. Sono intervenuto, lui aveva un coltello…io ho chiamato il 113 e l’ho messo in fuga”. Forse ha finalmente capito che non era il caso di mettersi a sparare ad altezza d’uomo in mezzo alla strada.