Addio Champions e sindrome da Don Chisciotte. Ecco i motivi di una débâcle...

Pubblicato ieri alle 13.40
28.08.2015 07:10 di  Alessandro Zappulla   vedi letture
Addio Champions e sindrome da Don Chisciotte. Ecco i motivi di una débâcle...
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Leccarsi le ferite in una notte del genere è davvero dura. Il rewind di immagini che sanciscono la débâcle laziale scorrono inesorabili sugli ultimi attimi di Champions biancoceleste. Uscire prima di entrare suona come un colpo insopportabile, che infrange un sogno tanto ambito e soffoca le speranze future. Il 3-0 inferto dal Bayer Leverkusen agli uomini di Pioli infatti non vale solo l’esclusione dalla coppa che conta, ma manda anche in frantumi la scalata eroica  di una stagione fa. Si sa che in un campionato non tutti possono concorrere per il titolo maggiore e nonostante tutto la Lazio il suo ‘scudetto’ se l’era conquistato. Il terzo posto che valeva l’ingresso in Champions. La chance per cui lotti tutto l’anno. Per cui sudi, inveisci, esulti, vinci e ogni tanto perdi. Klose e compagni c’erano riusciti. Superando il Napoli in un’epica battaglia vinta nel catino bollente del San Paolo. Scalando il K2 di un campionato meno patinato, ma comunque terribilmente difficile. Tutto grazie alla volontà, all’ambizione, di un gruppo e di un tecnico preparato, capace di regalare ad una piazza esigente la chiave per il calcio dei grandi. Sfida avvincente, motivazione stimolante, che dal rettangolo verde, in quella famosa notte di fine campionato, fu recapitata direttamente alla società. Il messaggio fu chiaro, inequivocabile, scandito a chiare note: “Noi abbiamo fatto il massimo, ora la palla passa a voi per completare il sogno”. Champions League: il campionato dei campioni, o per i più romantici la Coppa dei Campioni è una competizione dove militano i top team del vecchio continente. Dove per riuscire a restare in piedi evitando crolli imbarazzanti, servono investimenti. Un mercato mirato che puntelli la squadra sintetizzando in essa una giusta miscela di esperienza e sprint. Per giocare in Champions serve dunque un club da Champions in grado dalla testa ai piedi di concentrare i propri sforzi per raggiungere l’obiettivo. La Lazio c’è riuscita a metà. Eluso l’ostacolo sportivo grazie all’impegno profuso sul campo dalla squadra biancoceleste nella stagione passata, il mortale inciampo è arrivato dalla società. La Lazio non ha fatto mercato. O meglio non lo ha fatto per giocarsi veramente la possibilità di entrare nella coppa dei grandi. Dal I° luglio al 26 di agosto 2015 (e ancor prima se pensiamo ai baby innesti di gennaio), tutti gli sforzi operati dal club non si sono dimostrati funzionali al superamento del preliminare conquistato. Serviva un aiuto o forse più di uno a questa squadra per giocarsi fino in fondo le sue chance europee. Non occorrevano grandi investimenti, sarebbe bastato il famoso e quasi inflazionato ‘mercato delle idee’. Puntare su giocatori di buona esperienza, ma che per un motivo o per l’altro sarebbero potuti arrivare con investimenti low cost. La Lazio ha necessità di un paio di ritocchi in difesa, per rinforzare la catena di sinistra ormai da tempo deficitaria. Serve un vice Biglia e forse ancor prima sarebbe stato importante blindare e accontentare lo stesso playmaker argentino (evitando magari inutili querelle sulla paternità di una fascia da capitano mai così ballerina). Occorre un attaccante vero ed ora che Klose e Djordjevic sono fermi al palo serve ancor di più. Una punta centrale, che non sia il frutto di esperimenti improvvisi, mossi dalla necessità fatta virtù (vedi Keita trasformato in centravanti). È vero la Lazio partiva da una buonissima base e questo è innegabile, ma allora perché non rinforzarla in chiave Champions anziché lasciare tutto al caso? Di queste settimane le riflessioni infinite sui possibili tesoretti dell’ultima decade di mercato: 30 milioni se si va in Champions 7 o 8 se si retrocede in Europa League. Un attaccante se si batte il Bayer, nessun innesto se si perde. Riflessioni, chiacchiere, confluite in un disarmante immobilismo. Eccezion fatta per alcuni innesti di prospettiva, comunque per nulla funzionali all’obiettivo di stagione. Tare e Lotito hanno preferito puntare sui giovani da coltivare, anziché pigiare l’acceleratore del motore biancoceleste per tagliare da vincenti il traguardo del preliminare. Milinkovic-Savic, Ravel Morrison, Wesley Hoedt, Ricardo Kishna restano profili interessanti, ma tuttavia giovanissimi e per niente pronti per quella che è stata la partita delle partite. Valutazioni, strategie, che a conti fatti non hanno certificato la volontà della società di raccogliere quel guanto di sfida lanciato da una squadra di ‘eroi’. Dal campo alla stanza dei bottoni, l’epica scalata della scorsa stagione si è clamorosamente vanificata. Di fronte ai tedeschi di Schmidt ieri c’era “una Lazio non ancora pronta per giocare a questi livelli”, parola di Pioli che al 90’ ha dovuto alzare bandiera bianca insieme ai suoi ragazzi in campo. Qualcuno ha sbagliato è ovvio, se oggi si torna a casa con la testa china. Qualcuno ha contribuito pesantemente alla sconfitta più amara di un precampionato già di per sé disastroso. Certo potremmo analizzare gli errori in campo e magari ci si potrebbe accapigliare nella scelta del più colpevole, ma io non lo farò. Perché un errore lo puoi anche commettere, specialmente se hai fatto di tutto per vincere la ‘battaglia per aggiudicarti la guerra’. E allora sarebbe troppo facile iniziare il gioco dello scarica barile, utile solo a tranquillizzarsi la coscienza. Chi ha sbagliato sa. Il sipario è crollato su quel che di buono sino ad ora è stato fatto. Il diktat è certamente ripartire. Il rischio però della sindrome da Don Chisciotte resta vivo. Il timore di lottare e sudare per nulla, ammazza anche le più esaltanti motivazioni. Per la società è ora di prenderne coscienza, anche se il timore che sia troppo tardi resta davvero alto.