FOCUS - Petko rewind: quando un anno e mezzo è sufficiente per entrare nella storia

30.12.2013 10:30 di  Lalaziosiamonoi Redazione   vedi letture
Fonte: Manuel Gavini - Lalaziosiamonoi.it
FOCUS - Petko rewind: quando un anno e mezzo è sufficiente per entrare nella storia
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Se ne va il poliglotta Petko, il signore arrivato dall’Est in punta di piedi in un afoso pomeriggio di metà giugno, appena un anno e mezzo fa, tra lo scetticismo dilagante della Roma biancoceleste e non solo. Diceva di aspettare Babbo Natale, dopo l’ennesima débacle maturata a Verona, ma in cuor suo sapeva benissimo che non avrebbe trovato nessuna sorpresa sotto l’albero. Finisce infatti nell’unico modo in cui sarebbe potuta finire: l’epilogo è noto da settimane, in qualsiasi lingua, anche se chiunque si è guardato bene dallo sventolare ai quattro venti un finale mai come stavolta scontato. Se ne va il Petko a due facce, lo stesso che getta nella mischia i giovani Onazi e Cavanda a White Hart Lane la sera del suo debutto da laziale in Europa League ma poi, appena qualche mese dopo, tarpa le ali a Keita, lasciando fuori a oltranza il baby-prodigio anche quando da perdere c’è molto meno. Se ne va il Petko che un anno fa, di questi tempi, trascorreva le festività natalizie da secondo della classe, pronto a ricominciare l’anno subito dietro alla Juventus capolista. La stessa Juve agguantata idealmente il 19 gennaio, quando il gol del momentaneo vantaggio di Floccari nell’anticipo di Palermo proiettò la Lazio in testa alla classifica per circa un’ora, e affondata in semifinale di Coppa Italia dieci giorni più tardi.

PALERMO SPARTIACQUE – Erano i giorni in cui, nonostante la classifica, le malelingue dicevano di lui che nulla aveva portato di nuovo al nostro calcio. Il saggio Petko rispondeva con un ghigno e tirava avanti per la sua strada, consapevole di restare sempre e indiscutibilmente dalla parte della ragione finché i risultati non lo avrebbero abbandonato. Il problema fu proprio quello, inevitabile conseguenza di un digiuno di vittorie esterne senza precedenti nella storia recente (appena una in tutto il campionato nell’anno solare, il 3-1 in casa dell’Inter dell’8 maggio) e dello smarrimento a tratti incomprensibile di quella identità di gioco cucita addosso alla squadra nei mesi precedenti. Non è un caso far idealmente coincidere la sua parabola discendente proprio con lo sciagurato pareggio strappato ai disastrati rosanero di Zamparini. E’ dal “Barbera” in poi che si ricordano gli errori più evidenti del mister di Sarajevo, capace nel secondo tempo di rivoluzionare ingiustificatamente l’assetto tattico di una squadra fino ad allora padrona assoluta del campo. La stessa squadra che sarebbe sprofondata nel giro di quattro mesi dal sogno Champions all’anonimato del settimo posto, abbondantemente fuori dalla zona europea se non fosse passata per la scorciatoia del 26 maggio.

IMMUNITA’ DILAPIDATA – Già, il 26 maggio. Se ne va anche da vincente Petko, colui che, portata a casa una partita da tutto o niente, poteva stracciare chiunque e invece ha conservato la canonica signorilità, riservando una parola a caldo per l’avversario sconfitto. Anche se di quell’avversario si trattava. Se ne va lo stesso uomo che, dopo aver trionfato in uno dei giorni più importanti nella storia della Lazio, è riuscito a dilapidare un'immunità potenzialmente vitalizia. Un successo che avrebbe potuto ridare slancio ad un ambiente dilaniato da annose divisioni, e che invece ha sortito l’effetto opposto. L’entusiasmo a mille per la nuova stagione impatta subito con il rovescio all’Olimpico in Supercoppa. Il mister di Sarajevo si mette da solo sul banco degli imputati, schierando la chiacchieratissima coppa Biglia-Ledesma a centrocampo, insieme con Hernanes. Risultato sotto gli occhi di tutti, gestione successiva anche peggiore: se di esperimento si trattava, errore imperdonabile è stato testarlo in una finale; se una ponderata convinzione tattica celava, non doveva essere un risultato – seppur pesantissimo – a bocciare il lavoro di un’estate. Da ottobre latitano i risultati, traballa la sua panchina, cominciano in serie depistaggi sulle formazioni e variazioni tattiche a volontà nell’arco della stessa partita, oltre ad un ostruzionismo ingiustificato nei confronti degli addetti ai lavori, culminato con quella che passerà alla storia come la conferenza muta post Lazio-Livorno. Il tutto per evitare scomode domande sulla mancata convocazione di Keita, altro segnale di uno spogliatoio non più compatto come prima.

BUGIE E TRIBUNALE – Il susseguirsi dei rumors sull’approdo al timone della Nazionale svizzera dopo i Mondiali mettono inevitabilmente in subbuglio l’ambiente, dove in tanti sembrano digerire sempre più malvolentieri le scelte (spesso incomprensibili) dell’allenatore. Il resto è storia recente. Non tanto l’ennesima umiliazione stagionale subita in quel del “Bentegodi”, quanto l’assoluta pacatezza ai microfoni dopo il match, con esternazioni del tipo “Sembra assurdo ma abbiamo dominato”, pronunciate con invidiabile calma olimpica. In particolare, l’improprio utilizzo del verbo a lui tanto caro – che sul dizionario della lingua italiana corrisponde alla voce 'Tenere qualcuno o qualcosa sotto il proprio controllo, potere, autorità', poco o nulla di quanto visto nelle partite dell’anno solare che volge al termine – rafforza il sistematico abuso di frasi fatte, spesso presuntuose al limite del provocatorio. Finirà in tribunale anche questa, di lui sentiremo parlare ancora per un po’. Con molta probabilità la Lazio si sta lanciando in una battaglia persa in partenza, ma negare fino al 23 dicembre i contatti con la Federazione elvetica e non concedere nemmeno il beneficio del dubbio “che io possa trascurare anche solo minimamente la Lazio” ad annuncio ufficializzato, sono mosse che non tutti si sarebbero aspettati dal gentiluomo Petkovic. Come se i tifosi della Lazio non ricordassero il precedente con Eriksson nel 2001. Come se tutto lo spogliatoio, unito, si fosse stretto attorno all’allenatore uscente. Come se davvero il diretto interessato non conoscesse le dinamiche recondite non scritte – ma non per questo meno sacre – del mondo del calcio.

NELLA STORIA – Se ne va quella metà di Petko che ha restituito alla Lazio un po’ di prestigio europeo, conducendola fino ai quarti di Europa League – dove nessuna italiana era mai arrivata –, quando soltanto la sciagurata direzione arbitrale a Istanbul dello scozzese Collum, coadiuvato dalla diabolica regia dell’Uefa, spense le velleità biancocelesti di arrivare in fondo alla competizione. Se ne va anche l’altra sua metà, che da un anno a questa parte balbetta in campionato con una media da retrocessione, tra l’anonimato e la zona caldissima della classifica. Paga molte colpe non sue (o meglio, non totalmente sue), su tutte la mancata imposizione in sede di campagna acquisti, se è vero che non sono bastati due anni a invocare Burak Yilmaz per strappare dal Bosforo il tanto agognato centravanti turco. Se ne va un allenatore cambiato in diciotto mesi, forgiato da un’esperienza tutt’altro che agevole, integralista fino all'ultimo in campo ma italianizzato per molti altri versi che esulano dalla sfera strettamente calcistica. Al netto di tutto, però, se ne va un nome che per sempre sarà accostato a una delle più grandi vittorie in quasi 114 anni di storia laziale. E allora grazie di tutto e buona fortuna, Vlado. Step by step.