ESCLUSIVA - Marco Chiarion Casoni: "Mio padre ha sempre creduto nei tifosi, alla Lazio serve amore!"

Pubblicato il 21/07 alle ore 15
22.07.2014 06:30 di  Lalaziosiamonoi Redazione   vedi letture
Fonte: Cristiano Di Silvio-Lalaziosiamonoi.it
ESCLUSIVA - Marco Chiarion Casoni: "Mio padre ha sempre creduto nei tifosi, alla Lazio serve amore!"

Un veneziano a Roma. Il cinema non c’entra, però. È un tenero ricordo, invece. È un atto d’amore, in realtà. È la storia, forte e intensa, di uno dei presidenti più passionali e innamorati che la Lazio e la sua tradizione ricordino. Non è un mistero che le vicissitudini del più antico sodalizio romano siano legate alle vicende, anche personali, di uomini scapestrati, azzardati, sprovveduti, alcuni. Ma è altrettanto vero che, ancora più saldamente, quasi a doppio filo, le sorti di questa indescrivibile passione siano legate ad altri personaggi, onesti, instancabili, innamorati e desiderosi del meglio possibile per la Lazio. Gian Chiarion Casoni, a pieno titolo, appartiene alla seconda schiera di coloro i quali hanno retto e sostenuto le sorti del club romano. A lui toccò, forse, uno dei periodi più bui della storia laziale. Correva l’anno 1981, uno tra i più difficili. Il club, che solo sette anni prima si fregiava del tricolore più romantico della storia calcistica della Capitale, vivacchiava, tramortito, nella seconda serie calcistica del nostro Paese. Non c’era finito per un improvviso tracollo sportivo, no. Il calcioscommesse e le sue presunte verità avevano triturato la credibilità del club e le sentenze che la (discutibile) giustizia emise l’avevano relegato in Serie B. L’esito della prima stagione targata “anni ’80” nella cadetteria fu tra i più fallimentari che nemmeno il peggior “tremendismo” laziale poteva immaginare: la voglia di riscatto e di pronta risalita in Serie A, schiantate sul palo all’ultimo minuto dell’ultima di campionato, Lazio-Vicenza (sempre loro…). Lo sconforto fu smisurato, e si acuì ancora di più al pensiero che l’occasione era ghiotta come solo un calcio di rigore in pieno recupero può essere, ma dilagò, quando a fallire miseramente dagli undici metri fu nientepopodimeno che Stefano Chiodi, cecchino delle massime punizioni, lusso per la categoria e attivo contributore, neanche due anni prima, in termini di reti e prestazioni, dello “scudetto della stella” del Milan. Era il 14 giugno del 1981. Soltanto trentanove giorni più tardi Aldo Lenzini, fratello del provato “sor Umberto”, lasciava nella mani di Gian Chiarion Casoni tutti i cocci di un giocattolo che più rotto di così non si poteva. Ma il veneziano-romano accettò la sfida, non si tirò indietro. Due anni più tardi, il 12 giugno del 1983, riconsegnò alla massima serie la Lazio, lì dove doveva stare. Non poteva sapere, però, che la parte buia degli anni ’80 doveva ancora avvolgere l’aquila e i suoi tifosi. Per ricordare un uomo coraggioso e un grande laziale come Gian Chiarion Casoni, la redazione de Lalaziosiamonoi.it ha raccolto, in esclusiva, le parole del figlio Marco: aneddoti, riflessioni e tanto amore per la causa biancazzurra.

Dottor Casoni, partiamo dai nostri giorni. Cosa direbbe suo padre della situazione odierna che vive la Lazio e cosa crede avrebbe potuto fare per contribuire ad invertire la rotta?

Guardi, credo di poter dire che in un primo momento si sarebbe dispiaciuto del lento deperire delle relazioni tra tifosi e società. Ha sempre creduto nel contatto con la tifoseria e nel prezioso sostegno che questa ha saputo dare e ha dato negli anni trascorsi. Ricordo, statistiche alla mano, che sotto la sua presidenza lo stadio era frequentato da una media di quarantacinquemila spettatori, quando le cose non andavano bene. Al punto in cui siamo oggi, però, in quella che definirei una seconda fase, sarebbe molto contrariato: privare i tifosi della speranza, della goliardia, della gioia che il calcio e la Lazio sono e rappresentano, così come sta facendo questa gestione, mi pare troppo e soprattutto non in linea con la nostra storia. Avrebbe provato, con la signorilità che gli era riconosciuta, a parlare con questa dirigenza, per interrompere quella che mi pare invece essere una strategia mortificatrice e tesa al ribasso della storia della Lazio e delle sue potenzialità.

Alleggerendo il discorso e cercando conforto nel passato, a suo padre si deve la definizione degli acquisti di Wilson e Chinaglia, due colpi che, senza ombra di dubbio, fecero la fortuna della società e della storia laziale. Ne parlava mai, ne rivendicava mai il merito?

Assolutamente no. Fu un dirigente, e un presidente, di una modestia estrema. La carriera dirigenziale di mio padre all’interno della Lazio constò principalmente di tre fasi: la prima, agli inizi del 1965, a soli 33 anni, quando divenne commissario straordinario del club dirimendo una generalizzata crisi diffusa all’interno della società; la seconda, una volta affidata la stessa alle mani salde di Umberto Lenzini, quando occupò la poltrona della vicepresidenza (e in questo periodo, nel 1969, firmò gli acquisti di Pino Wilson e Giorgio Chinaglia); la terza, nel 1981, quando con un vero atto d’amore, rilevò dai Lenzini una società piegata e bisognosa di rialzarsi. La storia dice che la sua passione, l’amore profuso, diedero sempre ottimi risultati. Come lei saprà, la mia famiglia nasce con la Lazio nel cuore; prima di mio padre, mio nonno Giorgio aveva ricoperto cariche dirigenziali, addirittura sfiorando un vero colpo di mercato: nel 1960, preferì un certo Guaglianone (Victor Homero, ala uruguaiana che giocherà in biancoceleste solamente quaranta minuti ad Udine il 16 ottobre del 1960, infortunandosi anzitempo concluderà così la sua carriera a Roma, ndr) ad un allora promettente ma sconosciuto Altafini… beh, lo canzonammo per anni e anni.

Parlando invece della cessione della società a Chinaglia del 1983: c’è chi l’ha vista come un errore strategico e chi l’ha giudicata una mossa di vera lazialità. Come andarono le cose, in realtà?

Sin da subito diciamo le cose come stanno, raccontiamo la verità. Mio padre aveva capito quali potevano essere i limiti, anche economici, della sua gestione. Una volta tornati in Serie A, categoria che lui considerava habitat naturale per la Lazio, il suo più grande cruccio era dare una continuità, un futuro stabile al club; sapeva in cuor suo, anche per la sua grande esperienza in campo economico e gestionale, quanto per i decenni a venire la solidità economica delle società di calcio sarebbe risultata fondamentale anche per la loro sopravvivenza. Ricordo che c’era stato più di un abboccamento con l’allora presidente dell’Udinese, Lamberto Mazza (presidente anche della Zanussi, ndr), desideroso di compiere un salto di qualità come investitore nel mondo del calcio. Ma nello stesso momento, a Roma, sull’onda emozionale che solo la figura di Chinaglia sapeva suscitare, prendeva corpo, appunto, la cordata degli “americani”. Per anni si è pensato che mio padre fosse contrario alla presidenza Chinaglia: falso, nulla di personale verso Giorgio; quello che invece sin da subito era chiaro in mio padreera l’inconsistenza dei partner americani di Chinaglia, da subito poco propensi a calarsi nella realtà romana. Negli incontri che si tennero all’Excelsior, mio padre ebbe la netta sensazione della loro vacuità. Forse, pensando di poterli gestire in una seconda fase, Chinaglia non se ne preoccupò più di tanto, forse trascinato dalla volontà di far grande la Lazio. Quando, però, mio padre vide l’onda di suggestione e la pressione della piazza alla candidatura dell’ex bomber, non potè far altro che cedere il passo.

Venendo ai giorni nostri, o meglio ai giorni che furono. Dieci anni or sono, estate 2004, la paura di sparire, la corsa contro il tempo, una storia che non meritava quei patimenti, la grande solidarietà del popolo laziale. Suo padre diede un’ulteriore prova di amore per questi colori: l’esperienza del “Lazionista” fu un piccolo capolavoro.

Senza ombra di dubbio. Raccogliere più di 1 milione e mezzo di euro, con la salda promessa agli investitori che nel malaugurato caso di fallimento sarebbero rientrati in possesso del versato, organizzare ben trentacinque punti di raccolta nella città, attizzare nuovamente il senso di fratellanza, di comunità e passione che solo la Lazio sa dare, deve essere giustamente considerato come un atto di amore e vicinanza alla Lazio da parte di mio padre. Non chiese nulla, nulla pretese; ci coinvolse in questa impresa facendoci capire che in ballo c’era l’esistenza di qualcosa che lega e unisce migliaia e migliaia di persone. Non c’era solo la Lazio di mezzo, c’erano le famiglie, i fratelli, gli amici. C’era qualcosa che riempie e riempirà la vita dei laziali. Ditemi voi se questo non è amore.