FOCUS - Ritratto di un rivoluzionario: il calcio come missione, ecco chi è Marcelo Bielsa

Pubblicato il 21/06 alle 9.00
22.06.2016 06:42 di  Marco Valerio Bava  Twitter:    vedi letture
Fonte: MarcoValerio Bava-Lalaziosiamonoi.it
FOCUS - Ritratto di un rivoluzionario: il calcio come missione, ecco chi è Marcelo Bielsa
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© foto di Matteo Gribaudi/Image Sport

Il grande fiume scorre mansueto, le acque per niente limpide vanno via lente, un po' come le giornate di chi siede in quei locali rivestiti in legno e dove il caffè viene trattato con la stessa attenzione con la quale un orefice maneggia l'oro. Il Paranà abbraccia Rosario, cosmopolita e seducente, dove al café che sembra uscito dalla Parigi anni '20, segue pochi metri dopo lo strip-bar; alla piccola libreria che vende volumi dalle pagine ingiallite e che profuma d'avventura, s'accosta la sala giochi nella quale le monete rintoccano come campane. Rosario è un gioiello incastonato 300 km a nord di Buenos Aires, alla quale si oppone con una certa fierezza: perché lì a sud saranno anche capitale, ma è lei a esser la culla d'Argentina. Perché qui, sulle rive del Paranà, si accudisce e custodisce, ogni giorno, quella che in Argentina è più di una passione popolare, ma una vera e propria religione, un'applicazione profana del concetto di fede e di sacralità: il calcio. Rosario è la basilica del Fútbol argentino, il tempio dove il pallone si venera e si celebra, non si gioca e non si banalizza. Mai. E' una missione, un modo per ribadire la propria indipendenza, un modo per respingere la forza accentratrice di Buenos Aires. Qui, in questo universo a parte, è nato, nel quartiere di Montevideo, Marcelo Bielsa. Il padre, Don Rafael, era un avvocato; la mamma Lidia una professoressa di storia. Marcelo nasce e cresce in una famiglia ricca, borghese: il nonno, un giurista, si narra avesse una delle biblioteche più fornite d'Argentina.  Dimenticatevi le storie di povertà e periferie disagiate, Marcelo riceve un'istruzione severa, rigorosa. Donna Lidia è colei che con il figlio usa bastone e carota, asseconda la passione del ragazzo per il calcio comprandogli settimanalmente le copie del "Grafico", la miglior rivista sportiva del Paese; ma quando da scuola arriva qualche brutto voto ecco che il "Grafico" sparisce e al suo posto compaiono libri e lezioni di pianoforte. Il padre, invece, detesta quello sport chiassoso e volgare, lo sport del popolo, così lontano dalla sua mentalità austera e alto-borghese. Cerca in tutti i i modi di ostacolare il figlio, ma non ce n'è. E' impossibile, Chiedere a Marcelo di farsi passare questa malsana idea di giocare a calcio, sarebbe come chiedere al Paranà di farsi da parte e non abbracciare più Rosario. Marcelo, a volte, scappa anche dalla finestra per correre al campo e lì i ragazzi dei quartieri più poveri, non lo amano, lo chiamano "El señorito", tanto per rimarcare le differenze. Lui non se ne cura, l'importante è poter giocare e dar sfogo a quella che ormai non più una passione, ma pare diventata qualcosa in più, una ragione di vita. A 17 anni entra nel Newell's Old Boys, la squadra del suo cuore: è un onesto difensore, ha doti da leader, ma non è un grande giocatore. È stato abituato dalla madre, professoressa, a pretendere sempre il massimo da se stesso, ma presto si accorge che questo nel calcio non basta. Se non hai i piedi, se non hai la gamba giusta, non puoi nemmeno essere un leader. E così, a 26 anni, si ritira dal calcio giocato. Ma non chiude col pallone. No, sa che quella è la sua vita e che c'è un altro modo per completarsi: fare l'allenatore.

IDEE E RIVOLUZIONE - Per farlo, però, non basta la ferrea volontà, occorre sapere. Marcelo, ogni giorno, si reca all'edicola vicino a casa per comprare i dodici quotidiani che arrivano a Rosario. Li legge tutti, pagina per pagina, riga per riga, perché vuole conoscere tutto di quello che accade in campionato e soprattutto vuole leggere ogni cosa riguardo a due uomini: Cesar Luis Menotti e Carlos Salvador Bilardo. Sono i due allenatori più importanti d'Argentina e soprattutto hanno due concetti e idee di calcio a gli antipodi. Marcelo è convinto di poter essere la terza via, è sicuro di poter dare al calcio argentino la soluzione. Comincia la sua carriera lontano da casa, è chiamato ad allenare la squadra universitaria dell'ateneo di Buenos Aires. Niente di che, ma già qualcosa. Arriva al campo e detta subito le sue condizioni: per fare un buon lavoro serve progettualità e così comincia le sue selezioni su un campione di 2000 giocatori. Ne sceglie 20. Dai suoi pretende che si allenino come se il giorno dopo ci fosse la finale di Coppa del Mondo: le sedute sono maniacali, estenuanti. La squadra a volte recepisce con entusiasmo, altre volte i ragazzi -che prima di essere calciatori sono studenti- vorrebbero morire lì sul campo. Un giorno passa di lì e lo nota Jorge Griffa, colui che gestisce lo scouting del Newell's, lo vuole con sé. Marcelo mette subito in chiaro che se il club vuole rilanciarsi, deve avere ben chiaro un progetto. Una sera, Bielsa, convoca Griffa in sede e gli sottopone una cartina dell'Argentina divisa in 70 zone divise l'una dall'altra in maniera perfettamente geometrica: quelle 70 aree dovranno essere battute, setacciate, a caccia di talenti da portare a Rosario. Griffa dà il suo placet e Marcelo, con la sua Fiat 147, parte. Starà fuori tre mesi, percorrerà 25000 km e tornerà con parecchi giovani calciatori tra i quali Pochettino, Berizzo, Sensini, Batistuta e Abel Balbo. Griffa capisce di aver a che fare con un visionario, un genio, oltre che con un fine studioso del calcio e così propone al presidente di affidare a questo Bielsa la guida della prima squadra. Ed è allora, dopo qualche anno di rodaggio con le giovanili, ecco che Marcelo Bielsa ha la grande occasione. La sfrutta, perché non potrebbe andare diversamente, perché il destino lo aveva già deciso per lui, anche se lui l'aveva intuito sin da quando, ragazzino, leggeva sognante il "Grafico" alla faccia di Don Rafael. Il suo Newell's vince il titolo due volte in due anni, non era mai accaduto. Ma oltre al successo, a lasciare senza parole, è il modo di giocare del Newell's di Bielsa. Il suo è un calcio futurista, un trionfo di movimenti, un trip in un universo ancora inesplorato, un salto in una terza dimensione del calcio sudamericano. Bielsa supera Bilardo e il suo pragmatismo, carpisce la spettacolarità di Menotti ma la organizza e la disciplina. Quello di Marcelo è un calcio verticale fino all'eccesso, la ricerca dello spazio è ossessiva, l'invasione della metà campo avversaria una missione, il pressing asfissiante e le ripartenze fulminee. Quando nel dicembre del 1990 i "Leprosi" vincono il titolo ai danni del River, lui va sotto la curva dello stadio che poi diventerà "Estadio Marcelo A. Bielsa" e comincia a gridare "Newell's Carajo!" (per la traduzione il web vi sarà d'aiuto), perché il sogno è realizzato e la terza via del calcio spianata. Quel grido di gioia e liberazione, nella parte Leprosa di Rosario, è una specie di mantra, una preghiera a quel profeta sceso in terra il 21 luglio del 1955. Dove passa lui niente è più lo stesso, il segno che lascia Bielsa è indelebile, una traccia permanente che rivela la sua unicità.

SOLITUDINE - E' stato così nelle sue avventure con Argentina e Cile, così diverse nei risultati, ma così uguali nel rapporto creato con i giocatori e con il popolo. Nel 2002, la Seleccion, pare un'armata, arriva al Mondiale di Giappone e Corea da favorita assoluta, ma esce al primo turno, con 4 punti nel girone e il senso d'impotenza di chi, carico d'aspettative, ha visto la sorte girargli le spalle. L'AFA lo conferma, anche perché è la gente a chiederlo, oltre che i giocatori e poi due anni dopo si va ad Atene e in Argentina vogliono vincere il primo oro Olimpico della storia. Nei 24 mesi che intercorrono tra il Mondiale e l'Olimpiade, Bielsa si rinchiude in un silenzio assordante. È solo, come Aureliano Buendìa. Si isola, studia, progetta, pianifica e riesce: Marcelo porta i suoi all'oro Olimpico, rivelando al mondo gente come Tevez e Mascherano. Poi ecco il Cile, la sua scommessa, la più rischiosa e intrigante. La Roja, in particolare, vive un prima e un dopo Bielsa. El Loco trasforma la squadra, il suo modo d'intendere il calcio, il suo 3-3-1-3 è attuato alla perfezione da giovani talenti come Sanchez e Vidal, leoni nel pieno della maturazione come Medel e Jara, ma soprattutto dal genio (fino ad allora) incompreso di Valdivia. La Roja, al Mondiale di SudAfrica 2010, esce agli ottavi, ma lascia dietro di sé la sensazione di aver assistito a uno spettacolo di calcio quasi mistico: i cileni sono adepti che obbediscono al loro direttore senza mai tradire lo spartito, cavalieri che obbediscono al loro re. Quello che vediamo oggi, quello che ha vinto la Copa America lo scorso anno con Sampaoli, è il Cile figlio di Bielsa, il Cile che gioca il suo calcio, il Cile che senza Bielsa non sarebbe mai esistito. È vero, nella carriera sua ci sono sconfitte brucianti come quella ai rigori, in finale di Libertadores, contro il San Paolo, quando il suo Newell's vide sfumare un sogno troppo bello, forse, per poter diventare realtà. Sconfitte che, però, ama ripetere "gli hanno insegnato molto di più rispetto alle vittorie". È come se inconsciamente una parte del suo io tendesse verso il baratro, perché è solo guardando in faccia il dolore, l'inferno, che si comprende l'importanza del lavoro, del sacrificio che portano, poi, alla vittoria.

LOCO - In Argentina è amato, El Loco, chiamato così perché lì, se esci dai ranghi, se non sei perfettamente ordinario, sei pazzo. L'accezione non è negativa e non è come quella da noi percepita, Bielsa è Loco nella sua straordinarietà, è folle perché diamante tra i sassi. È un eroe romantico, ribelle e solitario, orgoglioso della sua superiorità intellettuale, ma allo stesso tempo irrequieto perché estraneo al comune sentire. Riservato, introverso, anticonformista, un rivoluzionario del futbol, un filosofo del gioco, teorizzato e applicato secondo i suoi concetti. A lui si sono ispirati tutti quegli allenatori che oggi propongono un calcio diverso, propositivo e non speculativo: da Guardiola a Pochettino, passando per Klopp. Pep si abbevera dal suo modo d'intendere calcio, tanto che non ha mai esitato a definirlo il migliore al mondo. La Lazio è la sua nuova sfida con se stesso, la sfida con un calcio che lo affascina, dal quale un anno e mezzo fa è stato premiato a Coverciano e nel quale spera di scrivere una pagina indelebile della sua storia. Tornerà a Formello. Sì tornerà, ci era già stato nel 2002, quando con la Seleccion preparava il Mondiale. Roma diventerà casa sua, chissà per quanto. Poi, finita la missione, tornerà davvero a casa. Nella sua Rosario. Lì dove tutto è cominciato, lì dove il fiume scorre lento e il calcio scandisce il ritmo dell'esistenza. In solitudine, come Aureliano Buendìa nella sua Macondo.