LAZIALI DOC - Massimo Maestrelli e Stefano Re Cecconi, i figli della Storia raccontano quella Lazio da leggenda - PHOTOGALLERY

09.09.2012 11:30 di  Stefano Fiori   vedi letture
Fonte: Stefano Fiori-Lalaziosiamonoi.it
LAZIALI DOC - Massimo Maestrelli e Stefano Re Cecconi, i figli della Storia raccontano quella Lazio da leggenda - PHOTOGALLERY
© foto di Lalaziosiamonoi.it

ROMA – Siamo in estate, per fortuna uno di quei giorni in cui il caldo ti lascia un po' di tregua. Alle nostre spalle c'è l'ingresso della Tribuna Tevere, ma in programma per quel giorno non ci sono partite. I pini del Foro Italico offrono la giusta ombra, ci sono insomma tutte le condizioni per lasciarsi andare alla leggera brezza romana e non pensare a niente. Invece la mente viaggia mille all'ora, le orecchie sono ben tese a non perdersi neanche una parola. Perché sotto l'ombra di quei pini, davanti a uno Stadio Olimpico deserto, Massimo Maestrelli e Stefano Re Cecconi stanno raccontando la storia dei loro padri. Che poi è la storia della Lazio. Il taccuino con le domande da sottoporgli è stato subito riposto dentro lo zaino, tanto a due persone come loro non c'è da fargli domande. Basta che si guardino negli occhi, si diano un cenno d'intesa e inizino ad aprire l'album dei ricordi. Il rapporto tra i loro padri, la magia di una squadra avvolta da un incantesimo, un popolo che sarà per sempre innamorato di quegli eroi. Guardi Stefano e leggi nel suo sguardo la fierezza di essere erede di questa storia, la determinazione che lo ha sempre portato a lottare per la memoria di suo padre. Guardi Massimo, senti la sua voce e accanto a lui vedi anche il gemello Maurizio, che il 28 novembre del 2011 ha riabbracciato il padre Tommaso e la sorella Patrizia. Li ascolti dialogare, pronunciare il nome di Giorgio Chinaglia, di Umberto Lenzini e capisci che tesoro immenso sia la lazialità. Essere laziali significa sentirsi fieri non tanto nelle vittorie, quanto nei momenti difficili, quando il baratro è a pochi centimetri. Ecco perché questo incontro non prende inizio dal trionfo del 1974, ma incomincia due anni più tardi: 16 maggio 1976, Como-Lazio 2-2. L'inferno della retrocessione è alle porte, al 17' i lombardi sono già in vantaggio di due reti, ma Bruno Giordano e Roberto Badiani strappano il punto della salvezza. L'artefice principale di questo miracolo, però, è Tommaso Maestrelli, tornato in panchina nonostante la malattia che lo avrebbe portato via pochi mesi più tardi.

STEFANO RE CECCONI: Tutti mi parlano di quella partita. Ho negli occhi una foto, un'immagine, in cui Tommaso abbraccia papà e si vede il numero otto della sua maglia. Quella partita mi è rimasta dentro, perché - con tutto il rispetto per gli altri  - è come se fosse stata una storia tra loro due, una partita magica tra Tommaso e mio padre. Era una Lazio diversa, anche perché Giorgio era andato via, Tommaso era malato ed era tornato appositamente per salvare la squadra. Anche Bruno Giordano o Vincenzo D’Amico mi parlano sempre di quella partita come la più bella mai giocata da mio padre, come se avesse voluto dire a Tommaso: “Tu mi hai reso un campione e io ti aiuto in questo momento di grande difficoltà”. Ancora adesso incontro i tifosi per strada che mi dicono: "Io a Como c'ero, ci ha salvato tuo padre, correva da tutte le parti". Ecco quello è stato il momento che porto maggiormente nel cuore.

MASSIMO MAESTRELLI: Per mio padre questa salvezza fu più importante dello scudetto. Sapeva di essere malato e sapeva che quella partita a Como sarebbe stato l'ultimo atto della sua carriera. Andare in serie B sarebbe stato un disastro, anche perché lui era sicuro che, se la Lazio fosse retrocessa, avrebbe rischiato seriamente di sparire. E lui questo non se lo sarebbe mai perdonato. 

L'incantesimo che aveva reso grande la Lazio si stava volgendo in un anatema: la partenza di Giorgio Chinaglia, da una parte, e la scomparsa di Maestrelli e Re Cecconi, dall'altra, avrebbero sancito la fine di quella squadra da leggenda. Una formazione che rimarrà per sempre nella storia del calcio italiano, ma non solo. Qualche anno fa il mensile francese So Foot inserì la Lazio di Maestrelli tra le squadre più affascinanti e stravaganti del XX secolo.

STEFANO: Ho letto i giornali dell'epoca e quella Lazio era qualcosa di spettacolare. La chiamavano il 'giocattolo'. Tommaso riuscì a creare una squadra unita nonostante le differenze. Pensate che mio padre e Gigi Martini si pestavano i piedi perché avevano lo stesso ruolo: Tommaso riuscì invece in un miracolo, convincendo Gigi a giocare come terzino. E conoscendo il suo carattere è stato davvero qualcosa di grande. Gli altri li conoscete già, brava gente che a volte viveva di eccessi, in un periodo - gli anni ’70 - in cui gli eccessi erano all’ordine del giorno. Quella era una squadra da film, che può essere paragonata per certi versi al Grande Torino. Il Toro ha il Grande Torino e la Lazio ha quella squadra. Tante volte dei ragazzi mi chiedono come sia possibile che mio padre, seppur abbia giocato a Roma tanti anni fa, ancora sia amato dalla gente. Allora io rispondo sempre: 'Fate presente che il Chievo, al primo anno di Serie A, fosse arrivato terzo, e che l'anno dopo avesse vinto lo scudetto. Sarebbe stato un fatto clamoroso, giusto? Ecco, questo è avvenuto con quella Lazio. A Roma venivano a giocare la Juve, il Milan, l'Inter ed erano impaurite.

MASSIMO: Il programma "Sfide" venne due anni fa a casa per fare un servizio su mio padre. Di solito i servizi di Sfide durano un quarto d'ora, invece in quell'occasione durò 55 minuti. E gli autori del programma mi dissero che sarebbe stato difficile non dare un tale spazio a una situazione così bella. Il servizio andò in onda a mezzanotte e fece il 18% di share.

Molto spesso si parla di allenatori bravi nel compattare un gruppo, nel dare le giuste motivazioni ad ogni giocatore. Nel caso di Maestrelli, però, l'affiatamento con lo spogliatoio era qualcosa di straordinario, Tommaso divenne in poco tempo un secondo padre per molti degli eroi di quella Lazio. Ne è un esempio l'affetto che lo stesso Luciano Re Cecconi nutriva nei confronti dei gemelli Maestrelli.

MASSIMO: Quando eravamo a Foggia si creò subito una grande empatia tra di noi. E anche questo è qualcosa di grande e di magico, perché poteva nascere un'amicizia con chiunque altro e invece è nata proprio con Cecco. Tuo padre (rivolto a Stefano, ndr) aveva un grande debole per noi, ci coccolava, scherzava con noi e spesso ci voleva anche agli allenamenti.  La vita va così e non voglio neanche pensare se fosse andata diversamente.

La grande umanità di Maestrelli lo portava a non rendere scontento nessuno nello spogliatoio, a non far nascere gelosie per essere il ìpreferito' dell'allenatore.

STEFANO: Tommaso era talmente bravo che riusciva a dare lo spago giusto a tutti quelli che ne avevano bisogno. Una volta mio padre era appena ritornato da un infortunio e Giorgio andò da mio padre dicendogli "Luciano sta male, non deve giocare assolutamente". Mio padre gli disse: "Sì sì, ho visto anche io che sta male, non lo faccio giocare", ma poi lo mise in campo! Con Tommaso tutti hanno avuto qualcosa. Se nello spogliatoio si fossero potuti scannare, lo avrebbero fatto volentieri. Il fatto è che, scannandosi, sarebbero andati contro Tommaso e una cosa del genere non l'avrebbero mai fatta. Arrivavano quindi fino a un certo punto, ma poi si fermavano.

MASSIMO: Mi ricordo che Fausto Inselvini sostituì per alcune partite Cecco, che era infortunato. Qualche tempo fa ci siamo incontrati per caso e lui mi raccontò: "Pensa che tuo padre mi ha fatto credere che ero un giocatore insostituibile. Ero così tanto sicuro di me stesso, che finito il campionato ero convinto che la mia carriera sarebbe esplosa, ma invece non giocai più a pallone!". Mi disse che mio padre gli faceva credere che senza di lui la squadra non poteva giocare.

Una malattia incurabile e un incidente inaspettato portarono via con sé un pezzo fondamentale di quella squadra. La magia s'infranse, ma il legame indissolubile tra i protagonisti di quell'impresa è sopravvissuto a ogni tiro mancino della sorte.

MASSIMO: Io e Maurizio arrivammo in Via Nitti poco dopo che successe il fatto (la morte di Re Cecconi, ndr), quasi per caso, perché facevamo le ripetizioni li vicino da mia cugina. Vedemmo Cecco vivo e lo aiutammo a salire in macchina. Ti trovi in quella situazione e non sai cosa fare, fu un momento tragico, un dolore enorme. A tredici anni non capisci bene cosa sta capitando, poi a cinquant’anni te ne rendi conto. A volte si intersecano delle caselle che non puoi immaginare. Mio padre che muore a dicembre, Cecco che muore a gennaio, entrambi che venivano da Foggia. Anche adesso, Maurizio è morto lo scorso novembre, Giorgio Chinaglia ad aprile. Io voglio credere, perché sono cristiano, che Giorgio non abbia voluto lasciare solo Maurizio. Credo che ci sia una vita nell’aldilà, però te la devi meritare.

Uno dei grandi meriti di personaggi così fondamentali per la storia della prima squadra della Capitale è quello di essere entrati per sempre nell'immaginario collettivo del popolo laziale: quello della Lazio del primo Scudetto è un racconto di gesta epiche che si tramanda di generazione in generazione. E che rendono fieri di essere laziali chi, come Massimo e Stefano, sono eredi di quella storia.

STEFANO:  Se a un bambino di Milano chiedi chi fosse George Weah, difficilmente se lo ricorda. Se a un bambino della Lazio chiedi di Giorgio Chinaglia, ti saprà dire anche i goal che ha segnato. Quando mi chiamarono per parlarmi della bandiera che adesso sventola in Curva Nord con la foto di mio padre, feci carte false per liberarmi e andare allo stadio. La vidi sventolare e iniziai a piangere. Quella bandiera è sventolata da ragazzi che hanno 20, 21 e 22 anni, è la più bella soddisfazione che potessi avere. Chiamai mia madre e pianse anche lei. Quello che per voi è solo un grande giocatore, per me è stato semplicemente papà. Non potrò mai ringraziare abbastanza i tifosi della Lazio e tutti quelli che ancora adesso si fermano a parlare con me. Conosco tanti altri ragazzi che volevano bene al proprio padre, morto magari sul lavoro per una caduta, e che vivono la mia stessa mancanza. Però io ho la fortuna che quando esco di casa la gente mi ferma: “Ma tu sei il figlio di Luciano!”.

MASSIMO: Noi siamo ricchi, ricchi, ricchi di questa città che è pazzesca. Quando morì, mio padre chiese due cose: a mia madre di continuare a vivere a Roma e a noi due di laurearci. Noi eravamo due capre a scuola, ci abbiamo messo sei anni a fare l'università, però alla fine due cose ci ha chiesto di fare e le abbiamo fatte. Siamo grati a questa città. I miei figli hanno la fortuna di essere della Lazio. Tommaso jr, quando ha indossato la maglia della Lazio per un mese, era impazzito, aveva il cuore che gli batteva forte. Sono cose che ti porti dentro, nessuno te le può inculcare. In questo periodo, devo dire, sono rimasto un po' defilato, ma quando mi avete chiamato per fare questa intervista mi ha fatto molto piacere. Poi mi ricordo quando inaugurarono le due vie a Cecco e ad Agostino Di Bartolomei (all'interno di Villa Lais, all'Appio-Tuscolano ndr), mi sono intrattenuto a parlare con Leonardo (nel 2003 era dirigente del Milan). Il fatto che il Milan aveva mandato un suo rappresentante a Roma per presenziare a quell'inaugurazione mi colpì molto. E' stato un gesto molto bello.

STEFANO: A proposito della via, spesso ci sono ritornato e mi sono divertito a guardare tutti quei bambini che giocavano con le maglie della Lazio e della Roma sotto queste due targhe. Vedere bambini che si domandano chi fossero quei due calciatori è una cosa bellissima.

Eppure per coltivare e rendere il giusto omaggio alla preziosa storia di questa società ultracentenaria, basterebbe coinvolgere figure come Massimo Maestrelli e Stefano Re Cecconi nella vita di questo club: la loro presenza fissa allo stadio, come ospiti della società, sarebbe un ringraziamento a quanto fatto dai loro padri e un momento unico di unione con la tifoseria. Ma spesso chi è al comando della Lazio non sembra ragionare in questo senso.

MASSIMO: Io rispetto tutti e soprattutto rispetto il modo diverso di vedere le cose di ognuno. Credo che sia meglio non invitare nessuno per cortesia o per interesse ma farlo solamente con il cuore. Mio figlio ha fatto un torneo internazionale con la Lazio, io a volte vado allo stadio, la seguo anche in trasferta. Mai ho chiamato nessuno e mai mi è venuto in mente di raccomandare mio figlio. Le cose devono essere fatte con il cuore, altrimenti è meglio non farle. Credo che sia anche più rispettoso. Quando la Lazio vinse due derby con Delio Rossi in panchina, in occasione del primo di questi derby io e Maurizio ci trovammo casualmente a cena con il mister e con Lotito. Dato che vincemmo, al secondo derby rifacemmo la stessa cena, allo stesso ristorante, e vincemmo un'altra volta. Quindi magari certe cose nascono casualmente e poi le vivi. Io poi dico che gestire una società di 30-40 giocatori, più tutti i loro procuratori, non è semplice come era ai tempi di mio padre. Io non faccio una colpa a Lotito, anche Cragnotti non ci diede le tessere in occasione della festa del Centenario. Ci chiamarono tante volte, ma noi dicemmo no. Poi la mattina del 9 gennaio ci chiamò, dicendoci che avrebbe mandato qualcuno a prendere mia madre con la macchina privata, ma io gli risposi che non era un fatto di macchine o di cose del genere. Per me non si può chiamare una persona perché ti fa comodo per una certa situazione, dopo che per tanti anni non l'hai mai chiamata. Quindi non è tanto un fatto di Cragnotti o di Lotito. Magari ci sono persone che possono aver paura di paragoni con il passato, che poi è un atteggiamento sbagliato. Molti mi dicono che Lotito non è venuto al funerale di Maurizio. A me non importa, perché la domenica dopo in curva c'era uno striscione dedicato a lui. Gli ho fatto la foto e quel gesto mi ripaga di venti anni. È la gente che amava mio padre ed è il loro ricordo la gioia più grande.

STEFANO: Secondo me, nella ultracentenaria storia della Lazio, quanti vuoi che siano queste persone che hanno compiuto grandi gesta in questa società? Una trentina? Allora magari si potrebbero dedicare trenta posti allo stadio per queste figure. Anche se comunque la penso come Massimo, tutto deve venire dal cuore. Le soddisfazioni più grandi te la da la gente poi. Un giorno andai allo stadio per un derby e, mentre entravo in tribuna, un signore sulla sedia a rotelle cominciò ad indicarmi, cercando di urlare il mio nome anche se non ci riusciva. Il nipote che lo accompagnava non mi aveva riconosciuto e lui sbraitava perché lo portasse vicino a me. A quel punto mi avvicinai, lo abbracciai e lui si mise a piangere. Tre anni dopo sono venuto a sapere che quel signore è venuto a mancare, ma il nipote ancora mi chiama, mi ripete sempre che ho regalato a suo nonno la gioia più grande prima di morire. Ecco questo vale più di mille inviti allo stadio. Poi, anche secondo me, se torni indietro e prima di Lotito vedi Cragnotti, prima ancora Calleri, vedi che non è cambiato molto da questo punto di vista. Anche sotto il profilo della gestione, non posso neanche dargli troppo contro. A me piacerebbe che investisse di più sui giovani tifosi, come l'iniziativa degli abbonamenti, ma anche qualcosa di più. Io però parlo da tifoso, lui magari da imprenditore potrebbe dirmi: “Io posso anche fare questo lavoro, ma se poi non mi porta a niente e magari i frutti si vedranno quando al posto mio ce ne sarà un altro”.

MASSIMO: Quando arrivò Calleri ci fu una polemica pazzesca, perché noi restituimmo le tessere. Lui, infatti, fu il primo presidente che non ci rinnovò le tessere. Noi non chiedemmo nulla, quando poi venne Giovanni Gilardoni (all'epoca consigliere della società ndr), provò a fare una forzatura, ma Calleri rispose che ai Maestrelli le tessere non le avrebbe date. Gilardoni quindi che fece, le pagò e regalò quattro-cinque tessere alla nostra famiglia. Io seppi questa storia e scrissi una lettera a Calleri in cui lo ringraziai, ma gli chiesi di restituire i soldi a Gilardoni. Il fatto che nella testa dell'imprenditore il primo pensiero è che non ci deve rimettere. Allora, se magari Lotito decidesse di affidare, per esempio, a Stefano Re Cecconi i rapporti tra squadra e tifoseria, avrebbe una persona che potrebbe seguire questa situazione al posto suo. Ma lui, essendo solo, non ce la fa. Inoltre non ha la predisposizione.

Dal presente al passato, Massimo e Stefano sono un fiume in piena. Soprattutto quando hanno la possibilità di sfogliare l'album dei ricordi. Dal legame speciale che li unisce, agli aneddoti sul grande Cecco.

STEFANO: Per me Massimo e Maurizio saranno sempre in due, anche se Maurizio non c'è più fisicamente, è presente lo stesso. Quando ero adolescente, mi ricordo ci fu una manifestazione in Campidoglio organizzata dalla Fondazione Luciano Re Cecconi. Io avevo circa 13-14 anni, loro due erano più grandicelli: mi ricordo che regalarono a mia sorella Francesca un pesciolino di gomma. Io me li ricordo così dolci e affettuosi nei nostri confronti, sebbene non avessimo la quotidianità di frequentarci spesso. Per quanto riguarda mio padre, posso dire che lui a sua volta ha avuto un padre fantastico, che veniva dalla campagna, ma per lui Tommaso era veramente un secondo padre. Questo lo senti e continua a vivere con te.

MASSIMO: Io invece ricordo che a fine allenamento Cecco faceva sempre un quarto d'ora di corsa attorno al campo da solo. Noi allora ogni tanto correvamo per mezzo campo con lui, però eravamo piccoli e dopo un po' ci fermavamo. Lui ci diceva che gli faceva piacere vedere il sudore che cola dal viso, i muscoli che pompano energia e in quel quarto d'ora si trovava da solo a condividere la gioia di quel momento. Mi ricordo poi quando lo convocarono per la prima volta in Nazionale, lui chiamò subito mio padre, che era contentissimo. Poi purtroppo giocò poco...

STEFANO: Purtroppo non fu molto considerato. Della squadra vincitrice dello scudetto andarono solo in tre in Nazionale (oltre a Re Cecconi, anche Wilson e Chinaglia, ndr), ma giocò solo Giorgio, fino al famoso 'vaffa' a Valcareggi

MASSIMO: Poi in quel periodo ct della Nazionale fu pure Fulvio Bernardini, che aveva allenato la Roma quando mio padre era giocatore.

STEFANO: Pure Bernardini non chiamò molto mio padre. La cosa che mi dispiace è che mio padre fece un gran gol contro la Juventus e Bernardini gli disse di stare tranquillo, perché l'avrebbe portato ai Mondiali in Argentina.

MASSIMO: Se Cecco non fosse andato alla Lazio, sarebbe andato sicuramente al Milan o alla Juventus. Mio padre infatti ammoniva di sbrigarsi a portarlo a Roma, sennò lo avrebbero preso le grandi del Nord.

STEFANO: Nel film che fu censurato, c'è una scena che è accaduta veramente, con Tommaso che dà l'aut aut alla società, dicendo: “Pur di farlo venire lo pago io!”. Quindi è facile capire come Tommaso fosse un padre per lui. Mio nonno Alfredo era una persona squisita, ma era molto semplice, così mio padre vedeva in Tommaso un vero punto di riferimento.

Parlando della Lazio di Maestrelli e Re Cecconi, non possono mancare aneddoti affettuoso e molto simpatici che hanno come protagonista Giorgio Chinaglia.

MASSIMO: Giorgio è stato per un periodo a casa mia. Premetto che lui aveva paura di tutte le cose che non conosceva, una paura proprio fisica. Una mattina sentii io padre che si era alzato per andare in cucina e trovò Giorgio con una forchetta in bocca, che cercava di togliersi un dente. Mio padre gli disse: "Ma cosa stai facendo?! Ti viene un'infezione così!", ma Giorgio gli disse che non sarebbe mai andato dal dentista e si tolse il dente da solo. Un'altra volta non doveva giocare un derby, perché aveva una caviglia gonfia. L'iniezione però non potevano fargliela, perché aveva una paura tremenda per gli aghi. Allora gli fecero uno scherzo. Lo portarono a mangiare fuori e incominciarono a fargli bere vino bianco a volontà. Giorgio cercava di ricordare che si sarebbe dovuto allenare, ma gli dicevano che tanto aveva la caviglia gonfia e non doveva preoccuparsi. Quando si alzarono, Giorgio era mezzo stordito e il dottor Ziaco gli chiese di accompagnarlo nel suo studio medico, perché doveva recuperare delle cartelle. Una volta nello studio, Ziaco gli disse di stendersi sul lettino e di dormire. Una volta che Chinaglia si era addormentato, Ziaco gli fece una puntura alla caviglia. Giorgio si svegliò subito, gridando: "Mi volete ammazzare, mi volete ammazzare!". La domenica quindi giocò il derby, non strusciò una palla per tutta la partita, ma la Lazio vinse.

Nelle parole di Stefano e Massimo, emerge viva la consapevolezza di essere stati testimoni di qualcosa di grande. E di avere l'onere, ma soprattutto l'onore di portare due cognomi così importanti.

STEFANO: Questi uomini hanno veramente lasciato il segno, con la loro vita, con il loro comportamento.

MASSIMO: Io credo che ognuno di noi si chieda che cosa i nostri genitori avrebbero voluto che diventassimo come uomini, come persone. Oggi sicuramente Cecco sarebbe contento di Stefano e mio padre lo sarebbe di me, ma per quello che facciamo quotidianamente, per come ci comportiamo.

STEFANO: Tante volte, anzi, portare un nome così importante non è così semplice. E' una cosa che comporta tante soddisfazioni, ma anche molto impegno: devi essere una persona che si comporta sempre in maniera corretta. Ma poi anche nelle cose che fai: io ho giocato a pallone, ma non era facile per me far capire che non ero come mio padre. Come lui ce n'erano pochi, poi io giocavo in un ruolo diverso dal suo, ma comunque a volte sembrava che dovevo quasi 'giustificarmi' del fatto che giocassi a pallone.

Chissà Tommaso e Luciano cosa avrebbero pensato del mondo attuale, del calcio di oggi, così lontano da quello della loro epoca.

MASSIMO: Io credo che se una persona è intelligente e flessibile, sia in grado di adattarsi a tutte le situazioni. Molti mi dicono che mio padre in questo mondo qua non ci si sarebbe ritrovato, ma non è che negli anni '70 mancassero i problemi, anzi. Credo che mio padre sarebbe stato contento di vedere una Lazio ancora ai vertici, sarebbe stato orgoglioso. Me lo immagino fiero.

STEFANO: Mi sono spesso immaginato mio padre affianco a me a vedere una partita della Lazio. Sicuramente avrebbe potuto dare il proprio contributo ai giovani. Da quello che mi dicono, era un tipo abbastanza moderno: molti ragazzi, che all'epoca giocavano nella Primavera, me lo descrivono come una persona in grado di prevedere come sarebbe stato il calcio anni dopo.

MASSIMO: Mi ricordo che mio padre insisteva spesso con il presidente Lenzini affinché migliorasse e allargasse il centro sportivo d'allenamento. Addirittura avrebbe voluto un posto dove i ragazzi avessero potuto studiare e al contempo allenarsi. Una cosa che in quegli anni era impensabile. E poi, quando mio figlio Tommaso ha giocato per un mese con gli Allievi di mister Inzaghi, mi sono immaginato suo nonno fiero di vederlo indossare la maglia della Lazio. Perché alla fine tutto torna, in un modo o nell'altro.

Sognare non costa nulla: chissà pure se Luciano Re Cecconi avesse seguito le orme di Tommaso Maestrelli, diventando allenatore anche lui.

STEFANO: Non credo. Sicuramente avrebbe fatto il dirigente. A lui piaceva molto avere a che fare con i giovani, aveva una mezza promessa con Lenzini di poter lavorare nella scuola calcio. Penso proprio che sarebbe rimasto nel calcio. Per lui era la sua vita, non era un lavoro: il suo lavoro era il carrozziere, si alzava tutte le mattine per fare quel lavoro. Mio padre amava ripetere sempre che lui aveva due cognomi: per un "Re" che prende soddisfazioni, c'è sempre un "Cecconi" che lo deve servire. Basti pensare anche com'era la situazione in quegli anni: per andare ad allenarsi con la Pro Patria si faceva 18-20 km al giorno in bicicletta all'andata e altri 18-20 al ritorno. Poi la mattina andava a lavorare in carrozzeria, per cui lui sapeva che il calcio non era un lavoro. Eppure si sentiva privilegiato.

C'è una peculiarità del calcio moderno: la difficoltà a ritrovare un calciatore alla stregua di Re Cecconi.

STEFANO: Era un giocatore strano. Tecnicamente bravo, ma non eccelso, però correva tantissimo. E come lui ne vedo pochi adesso, forse in Olanda  qualche giocatore ogni tanto mi da l'idea del gioco di mio padre. Un giorno incontrai Rivera  e mi disse che lui temeva mio padre più di tutti gli altri. Quando lo marcava Furino era dura liberarsi però alla fine restava li. Invece tuo ladre ti correva dietro e alla fine te la prendeva la palla.

MASSIMO: Lui era tecnico e veloce. Magari potrebbe somigliare a De Rossi anche se lui non corre come Cecco. E pensare che ai tempi di Foggia (ride, ndr) mio padre dovette scegliere se portare lui o Bigon a Roma. Pensate come poteva cambiare la storia di tutti quanti se avesse fatto una scelta diversa.

Ma la storia non si può modificare: quante volte Stefano, ma non solo lui, avrebbe voluto riportare indietro le lancette del tempo, a quella sera del 18 gennaio 1977, in cui suo padre perse la vita per un colpo di pistola sparato da un orefice. Il corso della storia non si può cambiare, allora l'impegno di Stefano è quello di rendere giustizia alla memoria del padre Luciano e sfatare il 'mito' della morte a causa di uno scherzo. Come ha fatto recentemente collaborando al libro di Maurizio Martucci, “Non scherzo. La verità calpestata”.

STEFANO: Credo che ci siano tante verità. Con questo libro non sono assolutamente andato alla ricerca di fantasmi. Però penso che nella vita ci siano situazioni che possono essere rivisitate senza problemi. Nel caso di mio padre, ci sono state delle cose che mi sono risultate sempre poco chiare. Con questo libro abbiamo cercato di spiegare bene quella situazione, lasciando poi l'interpretazione dei fatti a chi legge. Penso che la verità sia molto più semplice di quella che a volte esce, che siano intervenute delle forze molto forti, che abbiano indirizzato le cose in una direzione piuttosto che in un'altra. Molto semplicemente mi sembra strano che, come spesso succede, quello che non può parlare finisce per assumersi tutte le responsabilità. Ho visto nelle stesse persone coinvolte nella vicenda di mio padre un carattere molto sfuggente. Posso capire che aver vissuto certe situazioni possa lasciare un profondo choc, ma mio padre ha lasciato due figli che avevano il diritto di sapere con esattezza e con accuratezza sapere cosa sia accaduto. E' sempre stato molto semplice parlare di uno scherzo, che magari potrebbe anche essere avvenuto, ma magari no. Mi è sempre risultato alquanto strano che un uomo entri in un'oreficeria, dica una qualsiasi parola e un'arma venga puntata contro un'altra persona. Mio padre ha trovato quel giorno una persona stressata, che aveva già sparato, una persona vittima di quegli anni pesanti, in cui la criminalità si sovvenzionava con le rapine. Credo che quest'uomo dal grilletto facile, in un orario di chiusura, non so bene che film tante volte si veda nella testa, possa aver tirato fuori la pistola e, nello spostare la pistola da una persona all'altra, avendo capito chissà cosa, abbia accidentalmente fatto partire il colpo che ha ucciso mio padre. Massimo sa bene quanto mio padre voleva bene ai bambini e nessuno dice mai che in quel negozio erano presenti due bambini. Mio padre non avrebbe mai fatto uno scherzo che avrebbe coinvolto dei bambini. Per cui credo che accidentalmente ci sia stato un "buonasera a tutti" o un "fermi tutti", che quella persona abbia tirato fuori la pistola...

MASSIMO: Secondo me non è stato detto neanche nulla. Per me quella persona è stata ingannata dal fatto che Ghedin avesse le mani in tasca. Io ho parlato spesso con Ghedin e lui mi ha sempre detto che lui non è stato colpito perché fece in tempo ad alzare le mani, avendo capito la gravità. Mentre invece credo che tuo padre non abbia fatto lo scherzo, ma sia rimasto semplicemente con le mani in tasca. Poi credo che quella pistola fosse anche molto sensibile, da come mi hanno raccontato...

STEFANO: Quella pistola aveva il "cane" sensibilizzato, il che vuol dire che basta che venga sfiorato il grilletto che parte il colpo. Poi si deve aggiungere l'agitazione di quella persona, terrorizzata dal fatto che possa essere di nuovo una rapina. In seguito sono subentrate delle lobby oggettivamente importanti, perché divenne un caso di interesse nazionale. Si pensò infatti di usare il caso come deterrente a eventuali rapine che potevano succedere in Italia. La cosa che mi dispiace, quindi, è che la figura di mio padre, che ha fatto sempre sacrifici, debba essere usato come monito per far sì che certe cose non accadano, invece che come esempio. Io quindi ho cercato di capire, di respirare ciò che lui aveva respirato in questa città. Non ho trovato tutto, ma spero di aver dato la giusta collocazione storica alla situazione e credo che la bandiera che è spuntata in Curva sia anche un riconoscimento, una rivalutazione morale dell'uomo. Chi lo ha conosciuto personalmente, narra mio padre come una persona a cui piaceva scherzare, però uno scherza e si diverte con gli amici, sicuramente non in un certo tipo di situazioni. In quella Lazio mio padre era considerato il saggio del gruppo. Io poi ho incontrato anche Pietro Ghedin: devo essere sincero, con me è lui è stato molto sfuggente. Questo lo capisco, però questo ha favorito il non avere risposte chiare. Io una volta andai a trovarlo perché volevo ritrovare semplicemente un amico di mio padre: vidi una persona in difficoltà, come se vedesse uno spettro. Sicuramente non aveva niente da nascondere, ma quell'atteggiamento aumenta il tuo dubbio. Poi dopo un po' che parlavamo mi chiese: "Ma ce li hai i biglietti? Li vuoi?". Io non volevo i biglietti, io voglio solo conoscere meglio la situazione. Alla fine li accettai e li regalai a un ragazzo che li desiderava.

MASSIMO: Io però credo che Ghedin con questa situazione ci abbia convissuto per una vita, non te le scordi veramente mai certe cose. Io non voglio difenderlo, però essere coinvolto in una situazione del genere, con uno dei tuoi migliori amici, ti porti a non dormire per anni. Non tutti poi hanno la forza di agire che tu ti aspetteresti. Lui è una persona dura prima con se stessa che con gli altri.

STEFANO: E' vero questo, però io ho letto cose che ha detto Pietro durante il processo che non mi sono piaciute. Disse che erano amici, ma non grandi amici. Cioè, mio padre l'ha presentato a casa ai suoi genitori, oltre a lui ha presentato forse Luigi Martini. Le parole feriscono tanto. Mia madre è andata in giro per mezza Italia per sapere. Io non so a parti invertite come si sarebbe comportato mio padre: tutto sommato, devo essere 'contento', sennò mi sarei ritrovato un'altra famiglia aggregata, perché per come era fatto mio padre si sarebbe preso responsabilità che non avrebbe avuto. Io capisco le difficoltà di affrontare certe situazioni, ma poi alla fine quello che conta è che io ritorno a casa e trovo mia sorella, mia madre e siamo solo noi che dobbiamo vivere la mancanza di nostro padre.

MASSIMO: Collegandomi a mio fratello Maurizio, ricordo che due anni fa, dopo l'operazione, lui ebbe tantissimi problemi motori, non riusciva a camminare. Fece quindi fisioterapia per due mesi. Quando poi recuperò la funzionalità delle gambe e delle braccia al 100%, gli dissi di andare a fare un giro in bicicletta. Arrivati a Villa Glori, gli dissi poi di farci una corsetta. Maurizio era stato sottoposto a chemioterapia e aveva perso tutti i capelli, quindi correvamo io con i capelli lunghi e lui con i capelli a zero. Allora ci fermò una coppia che guardò mio fratello e gli chiese: "Ma tu sei Stefano Re Cecconi? Sapevamo che eravate legati, ma non pensavamo che andasse a correre addirittura insieme!". Ci guardammo negli occhi e ridemmo.

Uno sparo tolse la vita a Luciano Re Cecconi, un altro sparo segnò la morte di Gabriele Sandri. A trent'anni di distanza, l'ennesimo scherzo di un destino troppo spesso beffardo con chi fa parte del popolo laziale. Una coincidenza che ha unito molto Stefano Re Cecconi alla famiglia di Gabriele.

STEFANO: Io non sono uno di quelli che dice che lo conosceva, perché non è così. Poi ho avuto la fortuna di conoscere la famiglia, specialmente suo padre Giorgio, una persona squisita. Io mi diverto a fare manifestazioni con lui, perché è una persona veramente in gamba. Poi Giorgio è innamorato della Lazio, dei vostri nomi (rivolto a Massimo ndr)...

MASSIMO: Pensate che con Cristiano (il fratello di Gabriele) tante volte ci siamo detti di andare insieme a trovare Gabriele e Maurizio al cimitero, ma poi non ci siamo mai organizzati. Qualche tempo fa, ci troviamo casualmente all'ingresso del cimitero e siamo andati insieme a trovarli.

STEFANO: Un po' di tempo fa con Giorgio siamo stati a Nerviano, a un torneo organizzato in ricordo di mio padre, con la Pro Patria che volle scrivere sulle maglie di essere stata la prima squadra di mio padre. Giorgio lo chiamano da tutto il mondo, però è un uomo di sessant'anni, che a volte non ce la fa. Ha avuto anni tosti, anni di battaglie. Poi Giorgio è uno che parla con il cuore, soprattutto quando di fronte a sé ha dei ragazzi, che gli ricordano il figlio. Io sono molto contento di far parte della Fondazione, perché poi io rappresento la Lazio del '74, e il fatto che abbiano scelto me è un impegno, ma soprattutto un grande orgoglio.

L'orgoglio. La fierezza. La determinazione a non dare soddisfazione ai tiri mancini del destino. I racconti di Massimo Maestrelli e Stefano Re Cecconi possono essere presi a modello per capire cosa significa essere laziali. Perché avere a cuore le sorti della squadra nata il 9 gennaio di 112 anni fa vuol dire innanzitutto camminare a testa alta nei momenti di difficoltà. Le morti di Tommaso e di Luciano sono coincise con la fine di un sogno che ha portato la Lazio sul tetto d'Italia. Ma il ricordo di chi porta il loro stesso cognome quel sogno lo continua a perpetuare, perché anche le nuove generazioni di laziali sappiano che un tempo c'era una banda di pazzi scalmanati, guidati da un'allenatore eccezionale, che scrisse le pagine più belle di una storia infinita.