Ode al dadaista della panchina: Vujadin Boskov e il Gioco che vorrei

L'attenzione di un bimbo viene sempre calamitata da un elemento che rompe gli equilibri, che si distingue dalla massa. Ero curioso, esageratamente curioso. Non riuscivo a comprendere. Vedevo gli allenatori come figure impassibili e imperturbabili, assolutamente distanti dalla gente comune. Vedevo i Sacchi e i Capello, e mi apparivano come dei maestri severi e distaccati, niente Metodo Montessori. Era quella la figura che il mio cervelletto costruiva quando pensavo all'idea di Allenatore. E poi c'era quel signore con il montgomery beige. Era così buffo, con le fattezze quasi familiari, sembrava saltato fuori da un cartone animato, di quelli introdotti dal motto That's all folks. E' tutto gente. Chissà se Vujadin Boskov non avesse programmato un'uscita di scena del genere. E' tutto gente. Non riuscivo proprio a capire quel tipo. Sembrava l'unico che avesse fatto un passo verso di noi. Un generale buono, che sotto il montgomery nascondeva una pancia umana. Cercavo di analizzarlo al di qua del tubo catodico. Sembrava l'unico veramente umano. Un sorriso, dinanzi ai microfoni, assolutamente coinvolgente, moderatamente confortante. Non riuscivo a comprendere le sue battute, che scivolavano puntualmente sul lapalissiano. Solitamente si dice: ma questo ci fa o ci è? A volte si poteva pensare che fosse un discorso di lingua o una maniera simpatica per alleggerire un discorso, quello del calcio, diventato pesante, quasi opprimente. Prendila come viene, sembrava comunicare Vujadin Boskov con i suoi celebri aforismi. Chi sa, sa giocare. Chi non sa, non sa giocare. Non sono mai stato dentro l'esistenzialismo di Kierkegaard, non mi sono mai sforzato di comprendere le categorie kantiane. Ma quel tipo col montgomery beige, lui proprio non lo capivo. Un infiltrato. Doveva essere un infiltrato, era l'unica soluzione possibile. Eppure la sua presenza non poteva essere fine a se stessa. Quel tipo aveva vinto tutto con la Sampdoria, non esattamente la squadra che ci sentiamo di tifare da bambini. Non ha campioni, non vince. Ma con lui ha vinto. Grazie al tipo che proferiva frasi scontate, riflessioni dai tratti goliardici, che avrebbero fatto pensare quasi ad una presa per il c***. Ho provato negli anni a deragliare dai binari dell'apparente superficialità di quelle parole. Ho iniziato a trovare un senso. Quel tipo così bizzarro, un po' naif un po' dudeista, aveva una valenza ben più profonda, un ruolo assolutamente primario nella decadenza del romanzo calcio. Quel tipo era un rivoluzionario, un eroe romantico, un filosofo che attraverso un appartenente nonsense ci ancorava ai valori antichi del giuoco. Vujadin Boskov aveva abbandonato in settembre la sua storica residenza genovese in Nervi. La moglie lo aveva riportato a Novi Sad, la sua tana. A Nord della Serbia. Dove il calcio in passato ha salvato la vita di molte persone. Dove il calcio ha unito etnie divise da un'atavica faida. Eppure quel tipo affrontava la vita e il suo lavoro con il sorriso, con una leggerezza disarmante che allo stesso tempo nascondeva una missione ben precisa. Vujadin Boskov chi ha lasciato domenica, ho spinto la mia riflessione ancora più in profondità...e ho capito. Non comprenderò mai Kierkegaard o Kant, ma quel tipo ora non mi disorienta. Riascolto le sue interviste, rileggo le sue parole ed entro in un'empatia quasi magnetica. Il calcio è materia di svago, da sempre. E Boskov è sceso in terra per ripristinare l'antico comandamento. Incredibilmente vicino al popolo, incredibilmente sensibile alle esigenze dei suoi ragazzi. Non erano sketch da avanspettacolo, era la rivoluzione, o meglio la restaurazione. Improvvisamente vedo tutti gli altri come puri demagoghi, freddi aziendalisti di un gioco mutato in business. Il calcio è divertimento, sentimento, unione, fratellanza, ma anche leggerezza. Un sorriso composto e un po' malinconico. Come quello che riservava Vujadin Boskov a chiunque incrociasse il suo sguardo. Aveva la certezza che quel calcio, il suo calcio, stesse cambiando. E provava a reinterpretarlo a modo suo. 'Accidenti, è simpatico quel tipo' - hanno pensato in tanti. Non è puro folklore, è rivoluzione. Ha attirato l'attenzione con il nonsense, per comunicare semplicemente la sua idea di calcio. Una forma divertente ed entusiasmante di relazione, ma allo stesso tempo profonda e sincera, quasi primitiva. E mentre incantava la gente con un'ars oratoria bizzarra, di natura velatamente dadaista, il tipo è stato capace di vincere tutto con la Sampdoria, una bella Cenerentola, formando una coppia da tutto esaurito al botteghino con l'indimenticato presidente Paolo Mantovani. Perchè al termine della sua catechesi subliminale, il trionfo era cosa buona e giusta, fa parte del gioco. Educativo, pratico e trasparente. Pallone entra quando Dio vuole. Ma che dice questo? Dice il vero, l'essenza del gioco, forse l'essenza della vita. Il ritorno del calcio alla sua purezza, (quasi)innocente. Il Gioco. Che il suo Verbo non venga dimenticato. Il 27 aprile 2014 a Novi Sad si è spento un rivoluzionario. L'Allenatore, nel senso più ampio del termine. Maestro, amico e poliziotto. Inutile piangersi addosso. Basterà un sorriso. Almeno personalmente, vale il discorso dell'artista. Lo si comprende solo al momento della sua morte. Un sorriso, finalmente ho capito, papà, perchè alzavi il volume della tv quando parlava Boskov. Inutile piangersi addosso. D'altronde, dopo pioggia viene sole. That's all folks. E' tutto gente. Grazie Vuja.