Lazio, Sarri a Sky: "Speriamo sia il ciclo buono per fare il salto. E i risultati..."

Dopo l'anticipazione dei giorni scorsi, è stata pubblicata l'intervista completa a SkySport del tecnico della Lazio Maurizio Sarri. Di seguito tutte le dichiarazioni.
Il Clinic di Maurizio Sarri è una straordinaria opportunità per imparare. Per i giovani allenatori, ma anche per tutti quelli che amano questo sport. Io ho preso tanti appunti…
“Prima di tutto dobbiamo ringraziare la Valletta Beach Club perché è un'organizzazione straordinaria. Questa è un'iniziativa che era nata per dare una mano alla società di calcio del mio paese, dove ho fatto tutte le giovanili e anche cinque anni di prima squadra. Poi nel corso del tempo mi sono reso conto che mettere la mia esperienza a disposizione di allenatori e preparatori più giovani mi dava soddisfazione e quindi la faccio sempre più volentieri”.
Il primo messaggio che va lanciato in una situazione come questa?
“Non è tanto l'aspetto puramente tattico, l'importante è che i ragazzi abbiano delle idee e cerchino di tirarle avanti accumulando errori ed esperienza fino a che queste idee non diventino sempre più raffinate. Dal punto di vista personale, spero che ognuno rimanga sé stesso perché la maschera in questo mondo dura poco tempo”.
Qual è il calcio di oggi?
“Non lo so, penso che sia di chiunque abbia delle idee che poi diventano efficaci. In Italia si sta lanciando un messaggio, in Europa se ne sta lanciando un altro un po' diverso. O perlomeno, i risultati vanno in una direzione un po' diversa. In Italia si dice che il calcio moderno sia quello fatto dell'uomo contro uomo, soprattutto nella fase difensiva, ma in Europa invece il predominio è principalmente di squadre che difendono guardando la palla e che hanno tante qualità di palleggio. A livello di nazionali, mi riferisco al Portogallo e alla Spagna; a livello di club, al Paris Saint-Germain. Diciamo che i messaggi non sono univoci in questo momento”.
Oggi in Italia, visto quanto successo recentemente con la Nazionale, ci si preoccupa tanto della mancanza di talento.
“La verità è che non c'è più una grande connessione fra il movimento dei club e il movimento della Nazionale, lo penso da diversi anni. Non so quanti saranno i giocatori italiani convocabili per la Nazionale in Serie A, ma penso non più del 15-20%. Questo succede anche in altri campionati. Noi a livello di club negli ultimi anni abbiamo fatto bene: nel ranking UEFA un secondo posto due anni fa e un terzo posto quest'anno. Niente lascerebbe far pensare a una Nazionale che sta fuori per dodici anni dai Mondiali. Però purtroppo penso che questa forbice fra i club e le nazionali si stia allargando”.
Una definizione del calcio di Sarri?
“È un calcio che punta molto su grandi livelli di organizzazione, su una squadra corta e compatta che si muova con un unico pensiero. In fase offensiva mi piace avere il predominio del gioco, ma non sempre alleno squadre che hanno questa caratteristica. E tutti mi chiedono perché la mia squadra attuale non è come il Napoli del 2018... È perché ha caratteristiche completamente diverse. Noi allenatori dobbiamo avere un’idea di calcio, ma anche essere a disposizione nell'esaltare le qualità dei giocatori che abbiamo, altrimenti rischiamo di tirare di fuori i difetti e mascherare i pregi”.
Tu sei partito da lontanissimo, sei arrivato a essere un re d'Europa, un re d'Italia, vincendo lo scudetto, vincendo l'Europa League. Cosa ti ha dato più soddisfazione? Il percorso che ti ha portato a questo o i trofei vinti?
“Il percorso sicuramente mi ha dato tanta soddisfazione, anche perché in tutti questi anni mi sono pure divertito e questo è impagabile. I tre anni al Napoli mi hanno dato più soddisfazione dei trofei vinti perché in Italia abbiamo questa esaltazione della vittoria, del trofeo. Ci sono squadre hanno fatto una brutta stagione, ma hanno vinto una ‘coppettina’ e allora si dice che hanno fatto bene. Questo non mi dà gusto. Nella storia del calcio ci sono dei momenti in cui si ricordano squadre che non hanno vinto. Se ti dico anni 70, tu mi rispondi Olanda. Eppure non ha vinto niente. Quando chiedevo del grande Napoli loro mi parlavano di Maradona, ma se si parlava di squadra mi nominavano il grande Napoli di Vinicio, che non ha vinto niente. Non sono d'accordo con l'esaltazione della vittoria, ci sono cose che si ricordano molto di più”.
Sei stato fermo un anno… La bravura e la personalità spaventano un po' in questo momento?
“Sono stato fermo per tantissimi motivi. Sinceramente nei primi 6 o 7 mesi non mi interessava assolutamente niente per problematiche mie personali che andavano molto oltre il calcio. Poi uno torna alla vita normale come è giusto che sia, nonostante le difficoltà, e comincia a ripensare alla propria vita e alla propria attività. Se hai grandi livelli di personalità, puoi arrivare inevitabilmente a qualche scontro di troppo. Che da parte mia finisce lì, da parte di qualcun altro no e quindi la paghi”.
Adesso però finalmente sei tornato ed è una bella notizia non solo per la Lazio, ma per il calcio.
“Speriamo sia così. Son tornato alla Lazio perché è un ambiente a cui voglio bene. A tutti: magazzinieri, fisioterapisti, cuochi e camerieri. È un ambiente dal quale mi sono sentito apprezzato, mi hanno voluto bene e quindi ci torno volentieri anche per questo motivo. Non c'è tanta logica materiale nella mia scelta, perché io alla Lazio sono arrivato secondo e le possibilità di fare meglio sono bassissime, quindi avrei potuto prendere altre decisioni, però il cuore m'ha detto di tornare lì”.
Cosa si deve aspettare la Lazio dal Sarri 2 e cosa si aspetta Sarri dalla Lazio 2?
“Non lo so. È un ritorno d'affetto nei confronti di tutti, tifoseria compresa. Si possono aspettare che faccia il mio lavoro con amore. Ma a livello di risultati non lo so. Sono tanti anni che la Lazio cerca il salto di qualità e sono tanti anni non riesce a fare quello definitivo. Vuol dire che qualche problematica c'è. Ma mi sembra che il calcio italiano le abbia in tante situazioni, quindi le affronteremo, sperando sia il ciclo buono per fare il salto”.
Tu hai detto che "La lazialità ti invade", è una bellissima affermazione.
“Per tanti anni ho visto la Lazio da fuori e non avrei mai immaginato quello che rappresenta davvero. Solo quando ti trovi dentro questo ambiente, ti rendi conto cosa vuol dire la ‘lazialità’. È roba forte. Il 90% dei laziali è gente che ha la Lazio nell'anima proprio… Al limite della follia”.
Prima di questo nostro incontro ho riascoltato alcune tue dichiarazioni e interviste, molte frasi mi hanno colpito. Una di queste è quando hai detto "Un allenatore deve divertirsi, perché è fondamentale”. Un concetto lontano dalla sofferenza della panchina.
“Serve innescare nella squadra il senso di divertimento, che è contagioso. Se sei il primo ad averlo, molto probabilmente, lo trasmetti anche alla squadra. Che però deve capire che non vuol dire divertirsi in allenamento, vuol dire lavorare tanto e più degli altri per avere poi la possibilità di avere un predominio sulla partita. Se 2/3 giocatori incominciano a divertirsi, dopo cinque minuti lo fa anche tutta la squadra, poi al ventesimo minuto si divertono in 40-50.000. L’esperienza che ho vissuto a Napoli mi ha portato a pensare che quando in tutto lo stadio c'è questo senso di divertimento, si accetta anche la sconfitta”.
Questa è stata l’estate dei valzer delle panchine…
“Non è che sia un gran segnale. Vuol dire che a tanti allenatori è concesso poco tempo. Una volta Klopp disse ‘Chi giudica un allenatore dopo un solo anni di lavoro non capisce niente di calcio’. Qui si giudica dopo tre partite. Il ciclo lungo in Italia è sempre stato difficile, è riuscito a sconfiggerlo solo Gasperini. Però solo in un ciclo lungo tiri fuori veramente un modo di fare calcio. L'Atalanta è un esempio di come ormai una città intera viva di quella mentalità. Questo in Italia purtroppo è difficile, ma sono le storie più belle di calcio. Il Manchester United con Sir Alex Ferguson, il Liverpool con Klopp, il City con Guardiola… Sono quegli allenatori che poi hanno inciso non solamente nel modo di fare calcio, ma nel modo di pensare di un intero ambiente e di un'intera tifoseria che probabilmente innescano poi cose più importanti. In Italia è tutto più difficile”.
Cosa ti piace e ti colpisce di più di un allenatore?
“Quest’anno il coraggio di Luis Enrique, mi è rimasto veramente nell'anima. Un allenatore che ha il coraggio di far fuori le più grandi star mondiali, prendere giocatori classe 2005 e poi andare a vincere... È un qualcosa di meraviglioso. In un'intervista di un anno fa dopo la cessione di Mbappé disse ‘Noi il prossimo anno senza Mbappé giocheremo anche meglio’. È stato preso per pazzo, ma alla fine aveva ragione lui”.
So che ami molto la Premier League…
“È un campionato straordinario che si gioca con giocatori, squadre e ambienti straordinari. La Premier è l'NBA. Noi siamo la Serie A del basket italiano a confronto e te rendi conto da tutto: dagli stadi, dalle strutture, dai centri sportivi, dalla cultura e dalle conferenze stampa. Uno fa una conferenza stampa prepartita in Premier e c'è il giornalista giapponese, australiano, statunitense, cinese. Lì ti rendi conto della grandezza di questo campionato”.
Chiudo con una tua ultima frase: “Io non credo che giocando male pur di vincere si arrivi. Io credo che giocando bene alla fine si vince”. Un grande messaggio di speranza.
“Mi ricordo che in un'intervista un commentatore, quando ero Empoli alla fine di una partita terminata 2-2, mi disse: ‘Ma lei pensa veramente che giocando così lei si può salvare?’. E la risposta fu ‘perché lei pensa che giocando male io mi salvo?’. C’è questo concetto strano. Io penso che giocare bene aumenti le possibilità di andare a vincere una partita. O perlomeno, esprimere bene il calcio che hai preparato ti può aiutare. Io la penso così, poi vedo che c'è qualcuno che la pensa diversamente”.
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