Lazio, la notte della svolta: Sarri ritrova il suo calcio
Se c’è una partita che racconta chi è la Lazio oggi, è questa. Non per la classifica, non per il nome dell’avversario, ma per ciò che si è visto in campo: la gara più sarrista della stagione. Una Lazio fluida, armonica, con un palleggio che per la prima volta ha disegnato linee chiare, mature, convinte. Dopo dodici giornate, questo gruppo sembra finalmente aver memorizzato lo spartito del maestro: tempi, distanze, verticalità, decisione. Il 2-0 al Lecce vale tre punti, certo, ma soprattutto vale una sensazione che mancava da troppo: la Lazio gioca. E gioca da Lazio. Una serata piena, pulita, che dice crescita e continuità. Una di quelle sere che fanno bene all’anima.
Equilibrio, identità e la possibile scintilla che cambia tutto. Il vero valore emerso non è solo tecnico: è mentale. Questa è una squadra che non crolla più, nemmeno quando perde. La sconfitta contro l’Inter avrebbe potuto lasciare scorie, invece ha lasciato lucidità. E contro il Lecce la Lazio ha aggiunto un tassello nuovo: un palleggio che diventa rifugio, un’identità da cui ripartire quando la partita rischia di deragliare. Il “sound” di Sarri, quel battito costante, può diventare la melodia da seguire anche col mare in tempesta. Così Lazio–Lecce, partita che il calendario banalizza, potrebbe trasformarsi nella gara della svolta. Ti viene naturale pensarlo. Lo senti sulla pelle. E anche se non sappiamo ancora “verso cosa”, la direzione sembra finalmente quella giusta.
Non magia, evoluzione: quando la volontà supera la logica. Sarri l’ha ribadito: “Miracolo? Non sono attrezzato...” E infatti non c’è del 'divino' in questa crescita: c’è trasformazione. La Lazio è partita con un handicap enorme, frutto della negligenza societaria che ha bloccato il mercato: unica società in Italia in questa condizione. Una squadra incompleta ai blocchi di partenza, incastrata in una lista ristretta che non rispecchiava l’idea del suo allenatore. Eppure qualcosa è accaduto: dal caos è nata evoluzione. Quando la volontà spegne le differenze, quando i ruoli si riscoprono, quando le gerarchie si ricompongono da sole, allora anche i bruchi diventano farfalle. È presto per dirlo, certo, ma questo calcio (questo, non altro) è un biglietto da visita pesante. E arriva nel momento giusto: prima di Milano in campionato e prima del Milan in Coppa Italia.
La squadra cresce, la società implode: il pericolo più grande è dentro casa. Mentre la Lazio si rialza, la società continua a scivolare. Nessun gesto verso l’ambiente, nessuna mano tesa ai tifosi, nessun tentativo di ricucire un rapporto che da mesi cade a pezzi. Il caso Paparelli, uno schiaffo alla storia che non avrebbe dovuto nemmeno sfiorare l’immaginazione, ha aperto un solco doloroso. E mettere a rischio il tesoro emotivo dei 30.000 abbonati è un errore che nessun club sano commetterebbe.
Verrebbe da dire: “Fermate questo scempio, fermate l’egoismo di chi guida la Lazio.”
Servirebbe a qualcosa? Non lo so. Non ci giurerei.
Lotito lo conosciamo da ventuno anni: quando si muove, spesso fa più danni che passi avanti. È l’elefante nella cristalleria.
E allora il problema non è spingerlo:
il problema è fermarlo, impedirgli di rompere l’ultimo vetro rimasto.
Perché continuare così significa completare l’opera: soffocare la Lazio invece di sostenerla.
E questa, oggi più che mai, sarebbe l’ultima cosa che la squadra merita.
