Marchegiani: "Vi racconto la mia Lazio. Il soprannome, i trofei, Sinisa e..."

09.07.2025 22:45 di  Andrea Castellano  Twitter:    vedi letture
Marchegiani: "Vi racconto la mia Lazio. Il soprannome, i trofei, Sinisa e..."
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© foto di Federico De Luca 2024 @fdlcom

Intervista doppia a Formello. Nel centro sportivo gli ex calciatori della Lazio Fernando Couto e Luca Marchegiani ripercorrono le annate vissute insieme in biancoceleste ai microfoni di Figurine Panini. Di seguito le parole dell'ex difensore: “Io e Couto eravamo vicini nello spogliatoio, ma è cambiato completamente. Noi avevamo ancora le panche di legno con l’appendiabito. Ora c’è grande livello di design. Le figurine? Ho sempre fatto l’album, anche quando ho cominciato a giocare. Vado a memoria, ma penso di essere il portiere con più presenze nella storia della Lazio. E dovrei essere - e ne vado ancora più orgoglioso - il portiere con il record di imbattibilità più lungo. Effettivamente, però, mi tiravano poco".

"Il mio percorso è iniziato prima rispetto a quello di Fernando Couto. All’epoca in Italia non era facilissimo arrivare nelle prime posizioni, c’erano gerarchie ben stabilite e non era facile rompere l’egemonia. Ma noi italiani abbiamo contribuito a creare lo zoccolo duro, poi con l’arrivo dei grandi stranieri dal 97-98 in avanti non avremmo vinto. Le personalità del nostro spogliatoio? Quando ci sono persone così non è mai uno svantaggio, specialmente in un settore competitivo come quello del calcio di quegli anni: si vincevano campionati per un palo. Non c’erano i punti di vantaggio che si sono visti negli ultimi campionati. Avere personalità come le nostre aiutato, poi è vero che era uno spogliatoio tosto. Abbiamo passato momenti belli ma anche difficili, abbiamo vissuto "tutto il periodo della crisi economica della Lazio. Sono stati momenti difficili, tematiche toste da affrontare. Ma li abbiamo sempre risolti da uomini, senza comportamenti meschini. Noi giocavamo con Roberto Mancini che era uno dei due di centrocampo. Noi giocavamo con quattro difensori, due ali (Nedved, Stankovic o Conceicao), due punte (Vieri e Salas) e Mancini che faceva uno dei due centrocampisti. Pensate adesso ai tanti discorsi che si fanno sull’equilibrio, sul fatto che una squadra sembra debba avere tre centrocampisti di contenimento. Noi abbiamo giocato una finale di Coppa delle Coppe così".

"Le maglie? Oggi vedo tanti portieri che hanno la seconda maglia o viceversa, all’epoca c’erano maglie diverse e a parte. Quando penso a Eriksson dico una cosa: in un mondo in cui sembra che abbia ragione chi grida di più, lui è riuscito senza dover mai alzare la voce a ottenere il rispetto di tutti. Questo è un grande insegnamento che ha dato a tutti noi. Quando uno ha la forza della personalità, ma anche delle idee, non c’è bisogno di urlare. Si può anche parlare a bassa voce e arrivare lo stesso, farsi seguire lo stesso. Rivedermi sulle figurine? Quell’anno lì è stato il coronamento di una carriera. Non ho vinto tanto quanto Couto, ho vinto quello scudetto e per me significa tutto. Qualsiasi bambino inizia a giocare a calcio con l’obiettivo di vincere lo scudetto. Ho sempre creduto tanto nei rapporti umani. Sarebbe impossibile condividere una stagione con colleghi con cui non vado d’accordo. Sarebbe altrimenti un modo triste e poco proficuo di lavorare. Ho sempre avuto buoni rapporti con gli altri portieri con cui ho lavorato. L’anno dello scudetto? Ballotta è stato eccezionale, ha sempre aiutato me quando mi sono fatto male e c’è stato bisogno di giocare".

"Il soprannome ‘Il Conte’? Forse nasce da qualche giornalista quando arrivo alla Lazio. Forse per questo modo di fare, ero un portiere atipico: non ero estroverso, forse per quello. Quando i portieri hanno iniziato a usare i piedi ho avuto un po’ un trauma, perché ho pagato la poca attitudine a quel modo di giocare. Ho fatto una gara con la Nazionale in cui ho compromesso la mia immagine con un errore clamoroso nella gestione con i piedi della palla. Oggi può sembrare incomprensibile per come crescono i giovani portieri, ma all’epoca per noi che eravamo abituati a usare i piedi solo per fare il rinvio con la palla in mano è stato abbastanza difficile. Poi qualcuno si è adattato meglio, io purtroppo ho fatto quell’errore lì che ha un po’ condizionato la mia carriera".

"La difesa? Chiunque aveva un sostituto dello stesso livello, ma ognuno sapeva adattarsi senza problemi a qualsiasi compagno avesse vicino. A un certo punto Eriksson alternava i terzini quasi in modo scientifico. Mihajlovic? Le sue due figlie femmine sono coetanee di mio figlio. C’è stato un periodo in cui ci frequentavamo anche fuori dallo spogliatoio per far stare insieme i bambini. Per me è stato sempre un riferimento: al di là dell’aspetto un po’ burbero era un ragazzo di grandi valori, grande sensibilità e grande cultura. Ci si poteva parlare di tutto. Doveva rimanere con noi un po’ di più".

"Nesta? L’ho visto sbocciare, nel mio primo anno qui era uno dei ragazzi aggregati dalla Primavera. C’era lui, c’era Di Vaio. Si vedeva che aveva qualcosa in più, soprattutto l’anno successivo quando ha iniziato a giocare in prima squadra. Ha iniziato da terzino, poi Zeman mi sembra l’abbia messo centrale. Ma aveva quella sensibilità calcistica che ti faceva capire fosse un giocatore diverso dagli altri. Io mi ricordo Casiraghi, che è stato un grande avversario di Fernando Couto in nazionale, in una tournée in Giappone. Erano le prime partite di Nesta nel precampionato e Gigi alla fine della partita venne lì e mi disse: ‘Hai visto? Quando Nesta arriva guarda, non crossa come viene. Ti guarda prima di dar la palla’. Può sembrare banale, ma l’avevamo subito identificato come giocatore in grado di dare qualcosa in più".

"Io e Couto? Lui arriva alla Lazio da giocatore già forte. Per un portiere avere un difensore come lui è importante. Avevo grande rispetto delle sue qualità e anche del suo modo di gestire certe situazioni. Io non stavo zitto, ero un portiere a cui piaceva parlare. Provavo ad aiutare i difensori. E quando ti trovavi a confrontarti con giocatori così importanti non era facile, dovevi dargli indicazioni credibili per non fare figuracce. Il centrocampo? Veron il mio preferito. Giocatore straordinario, eccezionale".

"Simeone? Ricordo una sua frase, un giorno mi disse: ‘Veron è l’unica mezzala con i piedi da trequartista’. In effetti correva come una mezzala, non si fermava mai, ma aveva la visione di gioco e il passaggio da trequartista. Giocatore eccezionale. Loro due erano vicinissimi in spogliatoio, anche se non si parlavano. Una squadra che vince non può prescindere da questa volontà di lottare l’uno per l’altro. Poi a queste leggende metropolitane dei gruppi che escono tutti insieme non ci credo. Non è così: quando ci sono trenta persone che vivono insieme tutto il giorno e gli interessi di uno spesso cozzano con quelli di un altro, non può essere così. Simeone viene ricordato come uno dei giocatori più importanti di quell’anno lì: a inizio anno il centrocampista centrale lo faceva Sensini, poi Almeyda. E alla fine Simeone: lui ha giocato da titolare una parte di stagione, quella finale. Ma è arrivato pronto perché tutto il resto dell’anno si è allenato come se dovesse giocare. c’era questo obiettivo comune di arrivare a un risultato che per noi, dopo lo scudetto perso l’anno prima, era quasi un’ossessione. Tutti erano dediti alla causa, è stato bellissimo".

"Attaccanti? Boksic era incredibile, ma i gol me li faceva Simone Inzaghi. Perché giocava nascosto dietro il palo, poi usciva e segnava, visto che non c’era fuorigioco. Non avrei mai detto che sarebbe diventato allenatore, ma era anche acerbo e giovane dal punto di vista caratteriale. In assoluto però era il calciatore che guardava più partite, che conosceva più giocatori. E questa cosa la rivedo nel suo modo di essere allenatore. È attento ai particolari, metodico nelle cose. Ha fatto un gran lavoro sul suo carattere e sulla sua personalità. All’epoca non vedevo il carattere per gestire gruppi complicati come quelli che hai avuto. Un’icona di quella Lazio tra Nesta, Inzaghi, Simeone, Mihajlovic e Mancini? Io scelgo Sinisa".

"Lazio-Torino 3-0? Partita tranquilla, come anche Lazio-Verona 4-0. In quel periodo in casa queste squadre le battevamo facilmente. Lazio-Inter 2-2? Sofferta: prendo due gol stupidi. Uno di Recoba e un autogol su un tiro di Di Biagio. Partita tutta all’attacco perché siamo stati sempre sotto, fa gol Pancaro dalla linea di fondo all’ultimo minuto. Molto sofferta come partita. Lazio-Roma 2-1? Decisiva: la sera prima la Juve aveva perso a Milano col Milan. Juve-Lazio 0-1? Decisiva. Lazio-Reggina 3-0? Tranquilla. Ma tra le partite epiche ne manca una: Perugia-Juve. L’attesa è stata talmente strana che quasi un po’ mi dispiace. Il mio sogno è sempre stato quello di vincere col fischio finale dell’arbitro. Quella è stata una gioia immensa, anche per come è venuta. Ma tutto sommato la sensazione del fischio finale mi è mancata".

"La festa scudetto? La mettiamo tra le gare epiche. Era passata una settimana, i festeggiamenti meno controllati erano già esauriti. È stato bello per due motivi: uno per poter avere il tempo di abbracciare lo stadio e la gente, condividere quella gioia immensa un po’ più a mente fredda rispetto al trasporto dell’inizio; due perché in campo quel giorno c’era un giocatore che avrebbe meritato di condividere con noi quella gioia, quello scudetto, Beppe Signori. A lui sono particolarmente legato: lui è stato un grande artefice, se non il principale, di tutta quella parte di costruzione di cui parlavamo prima. Poi per una serie di motivi ha scelto di andare via e noi abbiamo iniziato a vincere quando lui è andato via. Avrebbe meritato di vincere almeno quanto me. La prima volta su una figurina? Un punto di arrivo. Davvero lo facevo da bambino: il primo anno al Brescia, in Serie B, non c’era la mia foto perché non ero titolare. Rimasi deluso. Poi dopo mi sono riscattato ampiamente, ne ho tante”.