Cragnotti si racconta a 48 Minuti: "La mia Lazio era mondiale. Lotito? Può fare di più"

01.12.2013 22:05 di  Francesco Bizzarri  Twitter:    vedi letture
Fonte: Lalaziosiamonoi.it
Cragnotti si racconta a 48 Minuti: "La mia Lazio era mondiale. Lotito? Può fare di più"
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"Noi eravamo troppo avanti. Il calcio italiano manca di mentalità imprenditoriale. Lo staff dirigenziale della banca non era all’altezza per poter sostenere progetti di ampia visione. Ed è il problema che affligge ancora oggi tutto il sistema industriale italiano". Non parla spesso Sergio Cragnotti, quando lo fa non è mai scontato, mai banale. L'ex presidente biancoceleste, si concede in un'intervista fiume ai microfoni di Sport Uno (canale 60 del digitale terrestre e 5060 del bouquet Sky) nella trasmissione 48 Minuti, parlando della Lazio più forte di tutti i tempi e del suo rapporto personale squadra - patron. Sotto vi proponiamo l'intervista integrale:

Perché a un certo punto della sua vita ha deciso di comprare la Lazio e chi l'ha convinta a farlo?

“Diciamo che inizialmente la Lazio rappresentava per me un hobby, una diversificazione delle mie attività industriali. Siccome in famiglia avevo un fratello tifoso laziale, che premeva che entrassimo nel mondo del calcio, ho aderito a questa iniziativa. Tutto è iniziato con una trasformazione della società Lazio, che in quei tempi navigava tra Serie A e B da diverso tempo. Credemmo allora di fare qualcosa d'importante e di portare delle idee nuove del calcio italiano.

Quanto pagò la Lazio?

“All'epoca furono investiti circa 30 miliardi di lire, una cifra importante. Fu un'entrata graduale, prima con il 10%, poi il 25% e successivamente prendemmo il 100%.”

Però si venne a scoprire all'improvviso, del suo ingresso morbido non si è mai saputo. In molti hanno detto che fu la Banca di Roma a pilotare la Lazio da Calleri a Cragnotti per farle fare il salto di qualità: quanto c'è di vero?

“La Banca di Roma negli anni novanta governava il territorio romano, in tutti i campi compreso quello sportivo. Calleri all’epoca lavorava con la banca e furono loro a traghettare la società da lui a me.”

Lei ha dichiarato che nella sua vita ha avuto grandi successi imprenditoriali, ma le emozioni che le ha regalato lo Scudetto con la Lazio non sono pari a nessuna cosa: è un po' una droga il calcio per chi ci entra?

“E' un coinvolgimento totale. La figura del presidente per una società calcistica è un punto di riferimento totale. Non c'è ancora in Italia una mentalità societaria, ma una mentalità che si lascia governare da una persona a 360 gradi. Oggi le cose stanno cambiando, anche se molto lentamente.”

La vetrina mediatica è la cosa più importante in Italia?

“Il calcio italiano manca di mentalità imprenditoriale, anche a causa dei limiti imposti da regolamenti antichi imposti dalle federazioni nazionali e internazionali. Non si riesce a considerare una società di calcio come una realtà industriale. Nonostante tutti questi limiti non mi sono mai pentito di essere entrato nel mondo del calcio, perché ho ottenuto il massimo che si può ottenere, ovvero il risultato finale, la vittoria. Anche se per arrivarci è servito molto tempo. Mi è mancata solo la Champions League, alla quale volevo arrivare, attraverso un progetto industriale che la Federcalcio rifiutò, ma che poi in seguito hanno copiato tutti”.

Lei è sempre stato considerato un innovatore, era bravo lei oppure gli altri presidenti non ci sapevano fare?

“La mia preparazione internazionale vi faceva passare per un innovatore e mi ha consentito di fare cose che in Italia non faceva nessuno, come la quotazione in Borsa della società. I club inglesi hanno fatto la loro fortuna con la quotazione in Borsa, ma in Italia non è stato così, anche per colpa delle tante, troppe regole. E questa limitazione causata dalla troppa burocrazia era ed è una forte limitazione per il calcio italiano e per l’intero sistema-paese”.

E' stato un bene la quotazione in borsa?

“Sulla quotazione in Borsa delle società c’è stato un errore di principio. Il sostegno di questa quotazione doveva arrivare dalla tifoseria, non doveva essere un’operazione speculativa. Le azioni di una società di calcio sono viste come un mezzo per speculare, tramite un evento, una vittoria. Il mio intento invece era dare alla società un sostegno permanente, per finanziare quei progetti che avrebbero consentito alla società di crescere. E la quotazione era il mezzo per realizzare tutto questo. Per portare la società fuori dal mercato romano, nel mercato globale. Come ha fatto ad esempio il Manchester United. Io, tramite le vittorie in campo nazionale e internazionale, volevo portare la Lazio a quelli livelli. Io ricordo che quando ero presidente e stavo spesso in Inghilterra per lavoro, ricordo che la maglia della Lazio si vendeva come prima maglia nei negozi ufficiali del Manchester United, era esposta all’entrata, a dimostrazione che venivamo considerati una squadra vincente. Non in ambito regionale, ma mondiale”.

Anche Fergusson, nel giorno del suo ritiro, ha ricordato quella Lazio...

“Sì, lo riconobbe anche Sir Alex Fergusson, grandissimo uomo di calcio, quando disse che uno dei grandi rimpianti della sua vita era stato perdere la finale di Supercoppa a Montecarlo contro la Lazio, che a detta sua all’epoca era la squadra più forte del mondo. Quella sua frase mi ha riempito di gioia, tanto che ho fatto un quadretto di queste sue dichiarazioni. Per ricordare quello che siamo riusciti a costruire e che ora qualcuno dimentica. Perché con noi la Lazio è diventata uno dei club più importanti del Mondo”.

Roma e Lazio hanno vinto sempre poco, in due hanno conquistato meno scudetti del Bologna, perché?

“Il grande progetto industriale di Lazio e Roma si è interrotto bruscamente con l’uscita di scena del sottoscritto e di Franco Sensi. Quando sono stato costretto ad uscire dal calcio, noi eravamo primi o secondo in classifica e il progetto era avviato per consentire alla società di restare in modo permanente al vertice. E anche Franco Sensi era riuscito a costruire un grande progetto che si è interrotto a causa della sua malattia e della mancanza di continuità.”

Lei fece un’alleanza con Sensi per combattere lo strapotere del Nord, mentre Roma e Lazio ora sono su fronti opposti. Queste divisioni tra Lazio e Roma non sono un po’ il limite del calcio romano?

“Senz’altro. Rappresentano il provincialismo del calcio romano. Anche all’epoca ne discutemmo tantissimo con Sensi e Franco riconobbe che sostenere idee comuni avrebbe dato forza alla Roma come alla Lazio. Perché volevamo far diventare Roma anche la Capitale del calcio italiano. E per qualche anno ci siamo riusciti, perché arrivavamo sempre primi, secondi, al massimo terzi. E con la nostra presenza al vertice avevamo eliminato squadre del Nord che l’avevano sempre fatta da padrone. Poi si è tornati indietro. Questo è un limite che deve essere superato. Anche Inter e Milan stringono alleanze e si scambiano i giocatori. Si può fare una battaglia per una partita di calcio, ma non su una visione strategica del calcio”.

Perchè la scelta di Eriksson?

“Ho scelto Eriksson per vincere e per riuscirci mi sono affidato a lui e alla sua equipe. Il cambiamento però tardò ad arrivare e questo mi fece tentennare. Cercai allora Capello, che prima accettò, poi ci ripensò. E forse quella fuga di notizie fu la molla per spingere Eriksson e la squadra a centrare i traguardi che ci eravamo prefissi”.

Prima di lei la Lazio aveva vinto 2 trofei in più di 90 anni, con lei ne ha vinti 7 in poco più di 2 anni, ma qualcuno sostiene che lei ha vinto poco rispetto a quello che poteva vincere.

Forse è vero, perché in quel momento la Lazio era veramente la squadra più forte d’Italia e tra le più grandi d’Europa. Poi con Calciopoli qualcosa si è scoperto su come era governato allora il calcio italiano e si è capito perché abbiamo vinto così poco. Dico però che sono contentissimo di quello che ho fatto, che ho costruito e per le nuove idee che ho portato. Idee che poi mi sono state riconosciute in seguito”.

Qualcuna l’accusa di aver fatto saltare il banco, di aver speso più di Berlusconi e Moratti pur di vincere.

“Si è investito tanto, ma la logica era che si comprava un grande campione e si cedevano un paio di buoni giocatori che avevamo valorizzato per finanziare l’operazione. Le così dette plusvalenze. Siamo stati i primi a farle, ma noi le facevamo vere, apportando grandi vantaggi economici al bilancio della società. Ho fatto grandi acquisti, in tempi diversi. Signori all’inizio, per dare alla gente un idolo in cui identificarsi, poi Veron, Boksic.. E Nedved, che fu una scoperta di Zeman. Ma Boksic per me oltre che un grande idolo sportivo è stato un mio pupillo.”

Lei fece carte false per portare Mancini alla Lazio, ma poi fu un po’ tradito...

“Mancini era un grande campione e anche un uomo di personalità e di grande intelligenza. Alla fine il rapporto si rovinò per ragioni personali, ma più per eventi esterni che per cose interne alla Lazio, al rapporto con la banca e la famiglia Geronzi”.

Nel 1999 avete perso uno scudetto in modo strano e l’anno successivo lo avete vinto in modo altrettanto strano. Esisteva già allora la Cupola che poi è venuta alla luce con Calciopoli?

“Il calcio era molto, troppo influenzato dalle potenze economiche del Nord. Occupavano tutti i posti importanti in Federcalcio e in Lega, quindi l’influenza era enorme. Poi l’assenza di una vera dirigenza ai vertici del calcio da parte delle altre società permetteva che questa gestione fosse a senso unico. C’è stato molto di strano e poi si è scoperto perché."

Moggi era solo potente o anche bravo?

“Era un grande dirigente e un grande conoscitore. E lavorare per una grande società che influenza direttamente la conduzione del calcio gli permetteva di alzare la voce in momenti particolari."

Lei è rimasto coinvolto nello scandalo passaporti. Ma Veron era veramente italiano?

“A quanto ne sapevo era senz’altro italiano. Aveva parenti italiani. Ma il problema è stato creato dai regolamenti, dai vincoli che spingevano qualcuno ad aggirare le regole”.

Lei da anni ripete che il calcio italiano deve cambiare, deve uscire dai confini. L’ingresso di Thohir può rappresentare una svolta o una grandissima occasione per convincere altri grandi imprenditori stranieri a investire in Italia?

“E’ una questione di visione, che riguarda chi gestisce il nostro calcio. Oggi il sistema è globale, il calcio non può essere più un qualcosa di provinciale, che si limita ad una stracittadina, legando le soddisfazioni ad una vittoria nel derby o nell’arrivare prima dei rivali. Senza dubbio oggi la cosa più importante è essere riconosciuti come una realtà mondiale di un sistema che coinvolge milioni, miliardi di persone nel mondo. Io ci avevo provato coinvolgendo grandi investitori stranieri, ma evidentemente non erano ancora maturi i tempi. Noi nel 2000 e nel 2002 eravamo troppo avanti. Oggi, come è successo con l’Inter e come succederà con altri i capitali stranieri arriveranno nel calcio italiano se il calcio italiano saprà dare delle assicurazioni agli investitori. Che non sono legate solo al risultato sportivo, ma alla possibilità di avere un ritorno in rapporto al capitale che si investe."

Geronzi, che l’ha sempre sostenuta fin dai primi passi mossi da imprenditore, decise che da un momento all’altro lei che aveva la maggioranza assoluta della Lazio doveva uscire dalla società. E quella decisione ha lasciato molte ombre sul perché e su quello che è successo dopo…

“In quel momento non credo che sia stato il presidente Geronzi a decidere di far mancare il sostegno alla mia idea industriale e calcistica. Ma la la situazione riguardava tutto il gruppo. Quello che la banca non ha sostenuto è stato il mio progetto industriale globale. E il sostegno è venuto meno da chi partecipava alla conduzione della banca e che faceva parte dell’equipe di Geronzi. In poche parole, qualcuno vicino a Geronzi non avevano capito il valore del progetto industriale ed è stato un peccato. Noi eravamo entrati nel settore del latte, nel mercato mondiale con il marchio Del Monte e volevamo portare il mercato alimentare italiano nel mondo. Il progetto era semplice, ma lo staff dirigenziale della banca non era all’altezza per poter sostenere progetti di ampia visione. Ed è il problema che affligge ancora oggi tutto il sistema industriale italiano."

Lotito sostiene che nel 2004 ha rilevato una società con oltre 500 milioni di euro di debiti, lei sostiene che ha lasciato la Lazio a dicembre del 2002 con 70 milioni di euro di debiti ampiamente garantiti dal patrimonio giocatori e non. Come è possibile che in 18 mesi si sia creato un buco del genere e soprattutto: chi lo ha creato?

“Non l’ho creato io. Il mio bilancio, approvato dalla Consob, a dicembre 2002 riportava quelle cifre. Dopo la gestione è stata rilevata dai manager della banca e io non so cosa sia accaduto. Ha preso tutto in mano la banca, compresa la gestione della squadra di calcio. E’ tutto molto strano, perché è stato fatto un aumento di capitale di 120 milioni di euro, quindi non si riesce a comprendere come mai questo debito sia lievitato fino a quel punto”.

Lotito però continua a ad attaccare lei ma mai chi ha gestito la Lazio in quei 18 mesi, cioè la banca. Non è un po’ singolare la cosa?

“Lo è senz’altro. Evidentemente qualcosa non ha funzionato. Io dico solo al presidente Lotito di prendersi il bilancio al 31 dicembre 2002 e di confrontarlo con il bilancio che ha trovato. Le risposte sono lì dentro. Io posso rispondere fino a quella data, perché sono uscito all’inizio di gennaio del 2003, quindi non so cosa possa essere successo."

Anche Geronzi nel suo libro sulla parte Lazio ha proprio glissato, quasi fosse una sorta di segreto di Fatima. Parliamo di quasi 500 milioni di euro e a rimetterci sono stati i tifosi e gli azionisti…

Bisogna vedere anche come sono rappresentati questi 500 milioni di euro, se esistono anche oppure no. Evidentemente in quel momento sono mancati i punti di riferimento all’interno della società ed è successo il caos."

Quando è caduto in disgrazia le sono rimasti vicino soprattutto i tifosi, ovvero quelli che l’avevano contestata maggiormente. Invece quanti di quelli che la abbracciavano e la applaudivano in Tribuna d’Onore le sono rimasti vicini?

“Devo dire che ancora oggi ho l’affetto dei tifosi laziali anche se sono passati più di 10 anni dalla mia uscita di scena. Andare in giro per la città e per l’Italia con la gente che ti riconosce i meriti per quello che hai fatto dieci anni prima è una grossa soddisfazione. L’affetto, e questo mi fa riflettere, sta a dimostrare che evidentemente avevamo costruito qualcosa di importante."

Lei, Cecchi Gori, Tanzi, Gaucci… E solo una coincidenza o c’è qualcosa di più se per tutti voi una volta che siete usciti dal calcio si sono aperte le porte della prigione? In Italia, essere presidenti di una società di calcio è da un certo punto di vista una garanzia di immunità?

“No, assolutamente. Essere presidente di una società calcistica significa stare nel vortice e a volte essere il capro espiatorio di eventuali fallimenti. Non credo che gli eventi che hanno toccato questi personaggi siano dovuti alle vicende calcistiche ma a quelle imprenditoriali che hanno fatto venir meno risorse alla gestione calcistica."

Lei aveva varato un progetto bellissimo, con uno stadio a forma di piramide con una struttura a vari livelli in cui arano previsti un centro commerciale, cinema e tanto altri. Le dissero che non si poteva fare nella zona che lei aveva individuato, poi su quei terreni è stato costruito di tutto. Questo è emblematico del sistema-Italia.

“In quel momento c’era veramente la volontà di portare avanti quel progetto della costruzione dello stadio, fatto da tecnici tedeschi. Avevamo individuato l’area (la Bufalotta) vicino al raccordo anulare, poi per i soliti problemi burocratici il progetto venne meno. E fu una grande pena, perché la realizzazione di quel progetto avrebbe portato alla società Lazio una dignità che forse non avrebbe mai perso."

Lo stadio è uno dei cavalli di battaglia di Lotito. Che ne pensa della sua gestione?

“Io credo che Lotito abbia fatto quello che si prevedeva e che poteva fare. Ha tirato fuori da una crisi profonda la società e gli ha dato una stabilità. Senza dubbio, per ottenere i grandi risultati servono grandi investimenti, quindi credo che il presidente dovrà fare uno sforzo, oppure chiedere aiuto all’azionariato per sostenere un grande progetto che possa portare la Lazio ad essere nuovamente una grande realtà nel mondo del calcio."

Ma lei ce lo vede Lotito che fa come Moratti che cede a Thohir e che si mette da parte o che si mette in casa un altro azionista?

“Si può anche cambiare nella vita, non è che ci si ferma sulle proprie posizioni. Evidentemente per raggiungere dei fini occorre una grande idea e una grande partecipazione. Oggi senz’altro costruire uno stadio significa avere una forza finanziaria notevole e per portare grandi risultati calcistici bisogna fare grandi investimenti e quindi è vitale fondare un progetto su una base finanziaria forte. E’ vitale."

Facendo un bilancio della sua avventura di dieci anni nel mondo del calcio, è più quello che ha dato o quello che ha ricevuto?

“Io credo che sia più quello che ho dato. Anzi, non ho nessun dubbio. Abbiamo portato tante idee per la costruzione di un grande progetto: in parte realizzato, in parte rimasto nel vuoto... E’ mancato l’atto finale."

Si è mai pentito di aver preso la Lazio?

“No, assolutamente. La Lazio non è stato un elemento destabilizzante, assolutamente. Forse qualcuno lo pensa, ma sbaglia. La Lazio è stata un grande progetto industriale come tanti altri che ho portato avanti nella vita, che è riuscito molto bene, che forse non è terminato, che non è arrivato al suo punto definitivo, e questo forse è il dispiacere maggiore."

E’ stato anche un progetto di cuore, però, anche per un grande manager come lei. Forse non è un caso se lei e la Lazio siete nati lo stesso giorno. Forse era destino…

“Forse sì. Poi quando sei coinvolto in cose in cui partecipano centinaia di migliaia, milioni di persone, evidentemente questo ti galvanizza, ti da una grande forza interiore per ottenere quello che cerchi."

Lei ha parlato continuamente di progetto interrotto in questa intervista. Significa che se ci fosse l’occasione un pensierino a rientrare nel mondo del calcio lo farebbe oppure lo considera un capitolo chiuso?

“No, oramai ho raggiunto una certa età e non credo che si possa pensare ancora a progetti. Questo riguarda i giovani, riguarda coloro che hanno veramente la mentalità e la fantasia di realizzare grandi cose. Il dispiacere è stato che nel momento cruciale in cui si potevano realizzare grandi cose non c’è stato il riconoscimento di quanto avevo costruito".

Cosa si rimprovera guardando all’indietro?

“Mi rimprovero di aver creduto molte persone, di aver confidato nel sostegno di molte persone e che questo sostegno sia venuto meno".