Il derby di basket a Livorno come Lazio-Inter...

Avanti di 24 all'intervallo, la Libertas riuscì a perdere di 14...
06.05.2010 08:10 di  Federico Farcomeni   vedi letture
Fonte: Il Tirreno (F. Parducci)
Il derby di basket a Livorno come Lazio-Inter...

Dias, Biava, Radu, Lichtsteiner? Dilettanti. Correva il maggio dell'anno 1978, Guccini non aveva ancora scritto Eskimo e Conte se lo filavano in pochi seppure da 10 anni avesse già composto Azzurro, perchè quasi nessuno sapeva che era sua e non di Celentano. Il basket, a Livorno, era ancora pallacanestro. Ma per poco, ormai. L'anno prima era stato inaugurato il Palazzone, quello che ora si chiama PalaMacchia, in via Allende che ai tempi si chiamava ancora via dei Pensieri. Libertas e Pallacanestro Livorno, rivali ma non ancora nemiche, sono agli sgoccioli del loro campionato di serie B. Succede che a quelli di via Cecconi (la PL) manca una vittoria per una promozione in serie A che in città manca da più di 10 anni. O meglio, mancherebbe una sconfitta, quella del Rodrigo Chieti che in classifica le sta appaiato. Ma succede anche che il calendario beffardo metta di fronte a Chieti proprio l'altra metà di Livorno, quella che di vedere salire al piano di sopra i cugini di voglia non ne ha né poca nè punta. E succede anche che quella partita decisiva si giochi a porte chiuse, lontano quindi da scomodi testimoni, anche se alla fine saranno le cifre a parlare con un linguaggio crudo e chiarissimo. A fine primo tempo la Libertas di Cosmelli (per lui fu l'ultima partita di una luminosissima carriera e di sicuro avrebbe preferito altro epilogo), Malanima, "Tazza" Guidi e compagnia ha fatto per intero il suo dovere e anche di più, tant'è che è avanti di 24 (19-43), l'altra Livorno ha un piede e mezzo in A2. Ma a fine partite facce incredule riferiranno che è finita 91-77 per Chieti e che si deve andare allo spareggio, la settimana dopo, al Flaminio di Roma dove gli abruzzesi vinceranno (85-80) e in campo voleranno le aste delle bandiere amaranto, spinte anche dalla rabbia di quello che era accaduto la domenica prima. Riassumendo. Nel solo secondo tempo la Libertas subì 72 punti (quasi 4 al minuto...) quando ancora il tiro da 3 non c'era e il limite del possesso palla era di 30 secondi. Un biscotto? Bè, vista con gli occhi del disincanto anche di più, una torta, la madre di tutte le torte. Come se la statuaria difesa laziale di reti ne avesse incassate 6 o 7, forse di più, fatte le proporzioni. Ma, vista dall'altra parte, che cos'altro si sarebbe potuto fare? Solo chi sa di derby, di derby veri, di quelli che ti toglievano sonno e appetito, può capire. E se non si è peritata la Lazio, davanti alle televisioni di tutto il mondo e nell'era della globalizzazione più completa, potremmo oggi sorridere, magari invocare la prescrizione per chi, nel chiuso di un deserto palasport di provincia, non volle in prima persona firmare il trionfo della rivale cittadina. Eppure ancora oggi, a 32 anni di distanza, parlare di quella storia con chi ne fu protagonista non è facile, sembra quasi di voler andare a rufolare negli archivi Mitrokhin. Si dice che nell'intervallo, avuta contezza del risultato parziale, una telefonata da Livorno, partita da una scrivania di quelle che contavano e che ancora di più avrebbe contato negli anni a venire, avvertì che le cose dovevano cambiare e l'ordine venne preso alla lettera, anche troppo visto il risultato finale. In panchina tutti i titolari, in campo le seconde linee. Qualcuno dei giocatori, sembra, non la prese bene e volarono parole grosse fra quelli costretti a sedere e l'allenatore, ma la ragion di stato (meglio, societaria) fu più forte di tutto. E da quella sera tutto cambiò. Non più una semplice rivalità (anche abbastanza soft, c'erano stati addirittura proficui scambi di giocatori da una parte e dall'altra) limitata ai derby, ma inimicizia vera. Eppure fu la rivalità diventata odio che fece grande la pallacanestro a Livorno e la fece diventare basket, grande basket. Da allora solo Bologna fra i canestri e, appunto, Roma nel calcio (Milan-Inter e Juve-Toro roba da educande, al confronto) poterono vantare un derby così carico di tensioni come quello che andava in scena sotto le volte del palazzone, stipato di più di 5.000 persone perché il cinema Statuto a Torino non era ancora bruciato e le norme sulla capienza non si sapeva che fossero. Chissà, forse senza quel gigantesco biscotto non avremmo vissuto quegli anni formidabili, non avremmo visto Jeelani e Addison, non ci sarebbero stati 36 e 39, Pasquale Zeppilli non avrebbe detto, il 27 maggio (e dai con maggio...) di 11 anni dopo la sua mitica "Signori, non vale niente", parziale ristoro, per chi tifava Pielle (Pallacanestro Livorno), di quei 72 punti benevolmente accolti in metà partita. E ora basta, "perché il ricordo mi diventa fioco", come direbbe Guccini, quello che nel 1978 non aveva ancora scritto Eskimo.