LAZIALI DOC - Silenzio in sala, parla il 'Mito': Dino Zoff, un Campione del Mondo a servizio della Lazio... - VIDEO

18.06.2012 11:30 di  Emiliano Storace   vedi letture
Fonte: Emiliano Storace / Stefano Fiori - Lalaziosiamonoi
LAZIALI DOC - Silenzio in sala, parla il 'Mito': Dino Zoff, un Campione del Mondo a servizio della Lazio... - VIDEO

Bussiamo alle porte del Circolo Canottieri Aniene, lui è lì che ci accoglie con un sorriso e una cordialità quasi disarmanti. Una stretta di mano, la voce che trema e la mente che inizia a viaggiare nel tempo. Maglie grigie, palloni pesanti e immagini sbiadite. In un istante si ripercorre un pezzo di storia italiana. Una storia fatta di umiltà e sacrificio. Valori importanti, troppo presto svaniti nel passato. Non per lui però. Non per Dino Zoff. L’antimito per antonomasia, un uomo riservato e sobrio come pochi, diventato però Mito per tutto quello che è stato capace di dare al calcio italiano. Merito forse del suo talento. O forse del suo esser uomo serio. Molto probabilmente anche colpa di 570 partite in serie A, 112 in nazionale, 12 titoli vinti, un record di imbattibilità di 1142 minuti in nazionale e soprattutto 22 anni di carriera impeccabili. Il 28 febbraio scorso ha compiuto 70 anni. Un compleanno che ha commosso l’Italia intera e non solo. Settant’anni di calcio, di silenzi, voli leggendari e uscite di classe. C’è chi, in passato, lo vedeva addirittura come “chiuso nel vetro di una sfera lontana”. Poesie e uomini d’altri tempi. Una sfera che si aprì improvvisamente a quarant’anni, quando riuscì ad avviarsi verso l’immortalità stringendo tra le mani il mondo intero. Un mondo tutto d’oro, tra le lacrime sue e quelle di un’Italia che voleva rialzare la testa. Sempre in silenzio, con il sorriso. E’ lì che si diventa un mito. Zoff è un nome che da sempre è sinonimo di coerenza, stile e dignità. Una dignità dimostrata in ogni occasione, dalle vittorie (tante) fino alle sconfitte. E quando le critiche si facevano cattive, velenose, lui rispondeva sempre con il silenzio e con il lavoro. Ma tanto la gente, il popolo italiano tutto, quello che aveva fatto innamorare sul campo, era con lui. Erano con lui nella beffarda notte di Atene, in quella maledetta di Rotterdam ed erano con lui quando all’ultimo minuto di quell’epica sfida col Brasile, fermò sulla linea di porta il colpo di testa di Oscar. L’Italia trattenne il respiro. Ma nessuno dubitò, del suo numero uno. Perché se c’è un nome, che unisce gli italiani e li rende orgogliosi, questo nome è Dino Zoff. E ha lo stesso effetto, se lo si pronuncia a Cosenza, a Pavia oppure in un sobborgo di Buenos Aires. Troppo grandi le sue gesta, per non fare il giro del mondo. Non c’è persona, che non conosca il suo mito. Ancora meno, sono quelle che non lo apprezzano. Per molto tempo lui è stato l’Italia. Quell’Italia che lo ama, ma che troppe volte non ha saputo comprendere i suoi silenzi. Ma a lui, interessava solo il rispetto della sua gente. Così in una calda notte di giugno, mentre tutti impazzivano per le notti magiche dell’Italia, Carlo Regalia e Gianmarco Calleri, decisero di far vestire il “Mito” di biancoceleste. Sembrava quasi un sogno, un azzardo. Invece la delusione per essere stato messo alla porta dalla sua Juventus, convinsero Zoff ad accettare l'avventura capitolina. “Per me è un onore allenare la Lazio”, disse deciso ma con la solita sobrietà, durante la sua presentazione. E lo pensò anche quando l’Olimpico gli tributò i primi fischi impietosi, dopo una brutta sconfitta in Coppa Italia contro il Modena. Ma cosa contavano quei fischi, per chi nella sua vita aveva lottato contro nemici più cattivi? La risposta fu sempre la stessa. Silenzio e lavoro. Perché la Lazio all’inizio era la sua sfida. Subito dopo, sarà un amore. Un amore mai morboso, però fatto lo stesso di passione e rispetto. Sicuramente neanche lui immaginava che Roma, sarebbe diventata per sempre la sua città e la sua vita. E forse non immaginava neanche di essere, dopo ventidue anni dal suo arrivo, un Laziale DOC. Zoff, l’allenatore, il Presidente, l’uomo immagine. L’ambiente isterico della Capitale, non lo scalfì mai. Troppo solide le sua basi per farsi ingoiare da critiche e polemiche di poco conto. Anche perché con lui la Lazio diventò grande. Non da leggenda. Perché di leggenda, ce ne poteva essere solo una. Mentre cammina al nostro fianco, guarda il Tevere che scorre lento. Il corso del fiume, gli ricorda la sua vita: lunga, senza fermarsi mai e con un silenzio rispettoso. Si siede, e guardandoci come un padre affettuoso, apre il suo libro dei ricordi.

28 febbraio 1942. La nascita di un bambino in un’Italia lontana e molto diversa. Che infanzia è stata quella di Dino Zoff?

Un’infanzia felice. Perché vivendo in un piccolo paese c’era la possibilità di giocare a calcio su ogni prato senza pericoli e senza problemi. Anche dopo la scuola, si continuava per ore a giocare a calcio oppure agli indiani. Dipendeva da i periodi, perché a volte andavamo anche a nuotare. Il calcio però, c’è sempre stato.

Ha sempre sostenuto che la sua famiglia, è stata il suo “mito”...

Era una famiglia contadina. Normalissima ma dove vigevano regole ben precise. Per questo non occorreva parlare troppo, cosa che invece adesso si fa più spesso. Non mi hanno mai fatto pressioni su niente, lasciandomi libero di scegliere il mio futuro. Tanto le scelte all’inizio erano due, o studi o lavori. Poi se sei bravo a calcio magari vai avanti, però la base principale era quella. Infatti io feci una biennale tecnica, continuando lo stesso a lavorare anche quando ero nella De Martino dell’Udinese. Solo dopo, da professionista, ho smesso di lavorare. Mio padre mi seguiva da lontano. Non si è mai intromesso come invece si fa adesso dove i genitori spronano i figli a giocare calcio. Anche quando dopo alcuni anni, ho esordito a 19 anni serie A e da li è cominciata la mia carriera.

Udinese, Mantova e poi Napoli. Nel 1967 arriva la sua prima squadra importante. Il suo passaggio ai partenopei fu bizzarro, un misto tra realtà e leggenda. Cosa successe quell’ultimo giorno di calcio mercato? 

(ride – ndr) Io dovevo andare al Milan, un passaggio praticamente fatto. Poi per colpa di una comproprietà da girare al Mantova, il trasferimento saltò. Una volta si chiudeva il mercato il 15 luglio a mezzanotte. Negli ultimi minuti, o forse oltre, il Napoli decise di acquistarmi. Bisognava però avere il timbro che il passaggio fosse effettivamente accaduto entro la mezzanotte. Quindi si narra, ma non so veramente se sia vero o meno, che fecero aprire di notte un ufficio postale per farsi mettere il timbro della mezzanotte del 15. Quella però è stata la mia fortuna e anche quella di Cudicini. Rocco al Milan era rimasto senza portiere e decise di puntare su Carlo nonostante fosse in fase calante perché era stato ceduto al Brescia dopo un’esperienza alla Roma. Lui fece i sei anni più belli della sua carriera mentre io venni convocato in nazionale e vinsi anche l’Europeo. A volte i casi della vita possono renderti molto fortunato.

Nel 1972 poi, si avvera un sogno. Arriva la Juventus, squadra che diventerà un pezzo della sua vita. Un orgoglio per quel bambino partito dalla provincia più lontana.   

Io già da bambino ero juventino, la mia e quelle precedenti,erano delle generazioni completamente bianconere. Io però non feci niente per andare alla Juve, perché a Napoli stavo benissimo, mi sentivo un re. La Juventus però mi seguiva già da tre anni e mi volle portare a Torino. Da li iniziarono 11 anni belli ed importanti in cui io non saltai neanche una partita. Un record importante che mi inorgoglisce ancora adesso.

In bianconero tante pagine scritte. C’è un ricordo bello ma anche uno brutto che porta sempre con sé?    

Il ricordo più bello è senza dubbio la vittoria in Coppa Uefa del 1977 contro l’Athletic Bilbao. Erano tanti anni che non riuscivamo a vincere una coppa internazionale e quella fu una coppa epica, giocata ancora con la vecchia formula di andata e ritorno. Proprio il ritorno a Bilbao fu durissima, con loro che attaccarono per tutta la partita. Quella coppa ci diede un’immensa soddisfazione anche perché tre giorni dopo vincemmo il campionato con 51 punti quando la vittoria valeva due punti. Fu il coronamento di una grande stagione. Il più brutto ricordo è senza dubbio la finale di Coppa dei campioni ad Atene. Fu davvero dura, anche perchè avevamo una squadra mega galattica con sette nazionali, Boniek e Platini ed avevamo fatto un girone impeccabile. Invece nella finale mancammo clamorosamente.

Le fece più male il goal dell’Amburgo o le successive critiche da parte di giornalisti e opinione pubblica?

Le critiche non furono così severe, anche perché il goal che presi non fu così banale. La sconfitta bruciò proprio perché la squadra non si espresse ai suoi livelli, creando pochissimo e giocando male. Nello sport succede spesso così, quando un pronostico è totalmente dalla parte di uno alla fine vince l’altro.

In quel gruppo di campioni fantastici, chi era il giocatore che stimava di più?

Erano tutte bravissime persone. Il migliore però era Gaetano Scirea, per il suo stile, la sua classe e la sua serenità anche fuori dal campo. Un uomo meraviglioso. La sua perdita è stata davvero pesante.

Agnelli e Boniperti. Qual’era il rapporto con loro?                                       

“Con l’Avvocato il rapporto era straordinario. Un tifoso speciale, che sapeva tutto e che soprattutto voleva sapere tutto. Sembrava quasi di essere con l’ultimo dei tifosi al Bar. Era incredibile. Con Boniperti fu diverso, anche perché lui aveva giocato a calcio e, in senso sportivo, con lui qualche battaglia la feci.

In quegli anni la Juventus sembrava quasi imbattibile. Poche squadre riuscirono ad interrompere il suo dominio. Tra queste c’era la Lazio, una squadra per noi epica. Che ricordo ha di quella Lazio da leggenda?

Giusto, è stata una Lazio da leggenda, straordinaria e garibaldina. Con un Chinaglia trascinatore e grande amico, dopo aver fatto anche il militare insieme. Fu sorprendente sotto tutti gli aspetti e vinse il campionato alla grande e con pieno merito.

Ha un ricordo speciale di Giorgio Chinaglia?             

Tantissimi. Lui era un esuberante, un po’ ribelle. Un ricordo non bellissimo fu quello della sostituzione del 1974. Lui si arrabbiò tantissimo e sparì per qualche ora. Lo cercammo ed alla fine lo trovammo in un parco mentre dormiva sotto un albero (ride ndr).

La Nazionale. Un’altra parte importante della sua vita. La prima convocazione nel 1968, l’Europeo subito vinto ed un’altra avventura destinata a diventare leggenda.

Senza dubbio una grande soddisfazione, anche perché gli Europei si giocavano in casa e fu il primo successo di una certa levatura dopo tanti anni. Prima la vittoria contro la Bulgaria a Napoli, poi la semifinale con la Russia dove rimanemmo anche in dieci perché si fece male Rivera, ma fummo fortunati nel vincere con la monetina. Poi le due finali con la Jugoslavia, molto tirate entrambe ma che poi vincemmo con merito. Forse è stata la prima volta nella storia, dove ci fu una grande partecipazione coreografica del pubblico. A fine partita tutti con le fiammelle e le bandiere. Un pubblico sempre presente e molto caldo.

C’è stato un dualismo che ha infuocato per anni la nazionale di calcio. Quello tra Rivera e Mazzola. Lei però aveva il suo di dualismo, quello con Albertosi. Eravate più amici o più rivali?      

Sicuramente più rivali. Avevamo troppe differenza caratteriali per poter essere amici. Lui era un gran portiere, giocò i mondiali del ’70 anche se tutte le qualificazioni le feci io. Fu preferito lui e giocò con pieno merito.

Nel 1977 dopo l’addio di Facchetti, diventò capitano della nazionale. Che provava nell’indossare quella fascia?

Provai una grande responsabilità. Anche perché io credo ancora che il capitano ricopra un ruolo di grande importanza all’interno di una quadra, dove ha il dovere di portare l’esempio. Sia nel 1978 che nel 1982, è stato per me motivo di grande soddisfazione e credo anche di averla portata bene.

Stavolta le diciamo solo una data: 1982. Bellissimo vederla a quarant’anni alzare la Coppa del Mondo...

La più grande soddisfazione della mia vita. Ti ripaga di tutta la passione che hai messo in questo sport, ed io ne ho messa tanta, soprattutto per il suolo del portiere. Poi a quarant’anni, da capitano, alzando la coppa. Un’emozione fortissima. Vincere poi quel mondiale, è una soddisfazione maggiore. Un mondiale spettacolare, dove passate le qualificazioni con un po’ di affanno, poi fummo capaci di battere le squadre in quel momento, più forti del mondo. Sempre con tanti goal e tanto bel gioco. Come spettacolarità credo sia irripetibile quel mondiale.

Fu però anche un mondiale pieno di critiche e di veleni. Voi avete avuto la forza di unirvi, anche grazie ad un uomo straordinario come Enzo Bearzot... 

Erano delle critiche preconcette. Noi arrivavamo dal Mondiale prima in Argentina dove facemmo un grande mondiale e dove forse, se avessi giocato un po’ meglio io, potevamo arrivare anche in finale. (sorride, ndr) la squadra quindi era forte, per questo la stampa si scatenò dopo le prime partite opache. Tutti erano contro Bearzot, che in quel momento rappresentava l’uomo da abbattare. Le critiche di conseguenza si allargavano su tutti, ma erano critiche fuori logica e infondate. Bearzot però era un condottiero vero, un uomo di forza e di spessore che non si nascondeva e se c’era da prendere un pallottola la prendeva al posto nostro. Un uomo autentico, non facile da trovare nel mondo.

Mentre la sua carriera di portiere arrivava all'apice, già aveva sentore che il suo futuro sarebbe stato su un panchina?

Quando uno gioca dai 35 ai 41 anni, quindi ha una visione diversa da calciatore, ha l'esperienza e la fascia di capitano, è portato a non considerare solo la propria prestazione, ma anche quella generale. Ciò porta a vedere le cose già da allenatore. Il portiere ha tanti tempi morti e ha modo di valutare tante considerazioni.

 

 

La carriera d'allenatore inizia con la Nazionale Olimpica, ma nel 1990 c'è la chiamata di Calleri...

Con l'Olimpica ottenni subito una qualificazione, poi passai alla Juventus, dove feci due anni, di cui il secondo straordinario: i tempi saranno stati diversi, ma nell'89-90 vincemmo la Coppa Uefa, la Coppa Italia, arrivammo terzi o quarti in campionato con diciannove titolari più qualche giovane. Oggi ce ne vogliano almento trenta, questo per dire che ci vuole del buon senso per condurre una squadra anche con gli incidenti. Poi finì l'avventura juventina, perché volevano cambiare totalmente, arrivarono nuovi dirigenti, volevano cercare 'champagne e bollicine', mentro io ero un grande rosso come vino (sorride ndr). Ma fu un fallimento. Io poi passai alla Lazio, vennero Calleri e Regalia e mi convinsero. La Lazio era una bella piazza, una squadra simpatica, veniva da alcuni anni con un po' di problemi, ma si stava già risollevando con i Calleri. Quindi accettai ben volentieri, infatti sono ancora a Roma.

Che Roma trovò in quel periodo? Come venne conquistato da una città che non ha più abbandonato?

Roma è la capitale, una bellissima città, bellezze da ogni parte, si sta particolarmente bene. Continuai a rimanere, perché dopo quattro anni di allenatore feci il presidente, quindi passai alla Nazionale, questo mi permetteva comunque di vivere a Roma e poi di nuovo ritornai. Ho avuto delle grandissime soddisfazioni, per la prima volta riportai la squadra in Uefa. Quando invece sostituii Zeman facemmo un ritorno alla grande, arrivando in Uefa anche in quel caso. Poi rischiammo di rivincere il campionato nel 2001, questo mi brucia ancora, perché pareggiamo una partita con l'Inter a Bari: Crespo avrà sbagliato almeno quattro-cinque gol, loro con una punizione al 92' di Dalmat ci portarono via due punti importanti, saremmo andati a due lunghezze dalla Roma, avremmo fatto una rimonta straordinaria, con otto vittorie consecutive. Pareggiare quella partita così, dopo aver sbagliato tanto e aver giocato bene, è un rammarico che poteva diventare interessante, come interessanti sono stati tanti derby: dal pareggio di Gascoigne a quelli di Protti e Castroman. Sono dei ricordi straordinari, la Lazio di Cragnotti per un periodo è stata la squadra più forte d'Italia.

Da allenatore, aveva già capito che con Cragnotti la Lazio sarebbe diventata grandissima?

L'avevo capito, anche perché l'inserimento di Cragnotti, con l'apporto finanziario che comportava, presupponeva questo. Si vedeva che poteva cambiare dal vivere a un buon livello a puntare in alto. Cragnotti diede questa realtà alla squadra, all'ambiente, a tutti.

Lei ha sempre raccontato molti aneddoti sulla figura di Paul Gascoigne, che recentemente ha compiuto 45 anni e sembra che abbia superato i problemi che l'hanno sempre condizionato...

Io sono contento, felicissimo se ha superato i suoi problemi. Ma problemi ne ho avuti tanti io con lui (ride ndr)! Io sono sempre stato innamorato degli artisti, e lui era un artista vero. E' stata una disperazione vedere depauperare quest'arte in comportamenti deleteri per un atleta. Però era questo, era un disastro o un artista. Faceva delle cose, anche non nel bene, però d'artista. Io mi ricordo che andava in ritiro in un alberghetto ai Parioli, il sabato prima della partita, e lui verso le tre mi dice: "Io alle otto devo andare a casa, è arrivata la mia fidanzata!". Io gli ho detto: "Se vai a casa tu, a questo punto andiamo a casa tutti... Ma tanto sei spesso infortunato, se non vuoi giocare e andare a casa vai pure e facciamo senza di te"... naturalmente andò a casa. L'indomani, a mezzogiorno, la squadra stava pranzando, io ero a tavola con alcuni dirigenti e, a un certo momento si apre la porta e si presenta lui completamente nudo e mi dice: "Mister, mi hanno detto che voleva vedermi, non ho fatto in tempo a vestirmi!". Fu una trovata d'artista, naturalmente non lo feci giocare, ma per me fu una battuta da grande artista.

Con il passaggio alla presidenza, come fu il rapporto con Cragnotti?

Io ero presidente, avevo le mie responsabilità di firma, ma lui aveva quelle finanziarie, quindi... Non abbiamo mai avuto conflitti, l'apprezzamento era reciproco e andavamo d'accordissimo. Lui era un capitano d'azienda, io ero un impiegato modello. Molte volte era portato a dire: "Compriamo qua, compriamo là!" e io magari cercavo di fermarlo, su certi acquisti se mi avesse ascoltato sarebbe stato meglio. Però è una persona straordinaria, quello che ricordo dei nostri rapporti non posso che parlare bene.

Aveva un giocatore che amava più degli altri nella Lazio?

​Alessandro Nesta. Un ragazzo che mi somigliava molto. era educato e rispettoso fuori dal comune. Un campione sotto tutti i punti di vista.

Cosa successe quando Sven Goran Eriksson, l'allenatore dello Scudetto, fu costretto ad abbandonare la panchina della Lazio?

Io avevo già sostituito Zeman, quindi ci misi tanto per accettare l'incarico, perché sembrava che io stessi lì in attesa di qualche cambiamento. Accettai malvolentieri, però Cragnotti mi disse che dovevo comportarmi da aziendalista, come sono sempre stato - non mi sono mai preoccupato se la società non mi prendeva Tizio o Caio, tanto io la sistemavo senza problemi. Poi facemmo bene e ancora mi brucia quella partita con l'Inter...

La sua avventura con la Lazio terminò con un esonero dopo poche settimane, quando venne sostituito poco fortunatamente da Alberto Zaccheroni...

Logicamente chi sostituiva me, non poteva essere fortunato (sorride ndr). Mi dispiacque, perché dopo tre pareggi perdemmo in Turchia (con il Galatasaray ndr), con il Torino facemmo 0-0 in casa, con Crespo che sbagliò tre-quattro gol. Ma adesso c'è gente che perde quattordici partite e dicono che hanno un progetto... (ride ndr). Ma questa è sempre stata la mia vita, ho sempre dovuto portare numeri straordinari per essere apprezzato, anche perché non ho mai curato bene le pubbliche relazioni. Anche da portiere ho dovuto portare numeri su numeri, non sono stato nella Top 11 dei portieri per dieci anni. Da allenatore, con la Juve ho vinto Coppa Uefa, Coppa Italia, ai tempi del grande Milan e del grande Napoli, eppure non è bastato, perché dovevano arrivare progetti megagalattici, mentre la mia sostanza non fa audience. Però non è che mi lamenti, ma sono semplici considerazioni.

La Lazio attuale: come giudica gli otto anni della presidenza Lotito?

Direi particolarmente bene, la squadra ha fatto bene, però ha mancato certi risultati che aveva la possibilità di raggiungere. I terzo posto quest'anno era nelle sue possibilità, anche l'altr'anno, ma quest'anno in modo particolare.

Quando lei fu chiamato alla poltrona di presidente, si capì che Cragnotti teneva al fatto di avere in società figure di prestigio. A questa Lazio manca un po' di lazialità attorno alla società?

Di lazialità non lo so, io in Europa posso essere considerato, siamo andati a giocarci la finale di Coppa Uefa contro l'Inter e la sera prima c'erano tutti i dirigenti Uefa e la Lazio era rappresentata degnamente. Adesso le cose non so come siano...

Paolo Negro ha detto: "Quando negli spogliatoi Zoff ci rimproverava, non potevamo dirgli nulla, perché cosa vuoi dire a uno come Dino Zoff?"...

Anche perché dicevo delle cose giuste, non parlavo tantissimo, ma non lo facevo a sproposito...

Il calcio sta vivendo in questo periodo un nuovo calcioscommesse. Uno scandalo simile ci fu poco tempo prima della vostra vittoria al Mondiale del 1982...

Non ho voluto commentare con nessuno di queste cose, perché vorrei vedere alla fine se è più largo di quanto sembra. Se leggi i giornali adesso certamente non è edificante, ma per poter dare dei giudizi vorrei vedere un po' più avanti.

Per la panchina biancoceleste è arrivato Vladimir Petkovic, una scelta che ha stupito un po' tutti e che ancora nell'ambiente laziale rende scettici. Lei chi avrebbe visto bene o consigliato?

Consigliato nessuno, di questo allenatore parlano anche bene. Io non lo conosco, non ho visto giocare le sue squadre, qualche giornalista svizzero ne parla bene, ma non saprei...

La stagione appena conclusa è stata l'ultima per Edy Reja sulla panchina della Lazio: come giudica l'operato del suo conterraneo?

Con lui la Lazio è andata sempre bene, al primo anno l'ha tirata fuori da guai, poi ha sempre girato attorno a quelle due-tre squadre più forti. Certamente è mancato quel quid per raggiungere la Champions League.

Oltre a lei e a Reja, sono nati in Friuli personaggi come Capello, Bearzor, i pugili Nino Benvenuti e Primo Carnera, la sciatrice Manuela Di Centa: cosa ha di speciale la sua terra?

E' una terra di confine, abituata a lavorare, a perseverare, a essere concreti. C'è una frase di mio padre che rende l'idea che non ci devono essere mai scuse in quello che uno fa: io ero già un giocatore del Napoli e mi fecero un gol, mio padre mi chiese: "Come mai quel gol lì?". Io gli dissi che non mi aspettavo che tirassero e lui rispose: "Perché, fai il farmacista?", per dire che se non se lo aspettava un portiere, chi se lo doveva aspettare. Questo è il Friuli, la sostanza prima di tutto, e questo ha contribuito a tirar fuori dei campioni.

Ha mai ricevuto proposte di entrare in politica?

Ne ho ricevute diverse, ma io credo nella politica dello sport, mentre oggi la percentuale di sport nel calcio è minore rispetto a quella dello sport.