Quando Long John riportava l'orologio al '74: "La prima volta che vidi Maestrelli pensai subito 'è un grande'... Quelle partitelle duravano ore, la gente ci guardava incredula"

Un tocco di magia, una spolverata d’incanto ad una storia che viveva una fase grigia, d’oblio. E’ stato un affresco, una pennellata d’arte calcistica quella Lazio. L’Italia viveva una fase particolare, erano gli anni settanta, gli anni di piombo, anni violenti, di estremizzazione. Per questo, una storia così estrema, così folle, non poteva che nascere a Roma, nel cuore del Paese e il destino, per raccontarla, non poteva che usare il calcio, il gioco di tutti. In due anni dalla B all’apoteosi, Maestrelli a guidare una banda di giovani pazzi, di ragazzi artefici di una delle pagine più belle del calcio italiano. Se il Maestro, di quella squadra, era il cervello, Chinaglia ne era il cuore. Long John, più di ogni altro, ha incarnato lo spirito di rivalsa del Laziale dopo un decennio, gli anni ’60, di retrocessioni e risultati scadenti. Lui, emigrante, con la voglia di conquistare il mondo e di riprendersi quell’Italia da cui era partito bambino. Chinaglia arrivò a Roma che non era nessuno, andò via che era ogni cosa. Ha lasciato un segno indelebile in un’intera tifoseria, ha lasciato un vuoto troppo grande in tutta quella gente che, nel 2000, lo aveva eletto “il più grande giocatore laziale di tutti i tempi”. Un mese fa, un mese prima di andarsene, Long John, aveva rivissuto quegli anni, in un’intervista al sito InbedwithMaradona.com: “Stavamo perdendo e lui non correva, così gli ho dato un calcio nel sedere. Cosa c’è di strano?!”, inizia così la chiacchierata tra il giornalista e Chinaglia. A prendersi la pedata nel sedere fu D’Amico, reo secondo Giorgione, di non sacrificarsi per la squadra. Quella Lazio era una squadra particolarissima e allora era normale scatenare una rissa in un ristorante di Roma malmenando gli avversari. In quel caso l’Arsenal. “Dovevamo scambiarci dei regali con i giocatori dell’Arsenal a cena. Ma alcuni dei nostri non volevano dare proprio nulla a quelli, che non erano stati molto corretti in campo. Partì qualche pugno e vidi i miei compagni colpire gli avversari e la cena finì così”. “Se fosse stata una squadra di Premier, su quella Lazio ci avrebbero fatto un film”, disse una volta un cronista britannico. E in effetti, la curiosità del giornalista si concentra su un altro episodio particolare. La notte della partita contro l’Ipswich: “Perdemmo 4-0 all’andata, lì in Inghilterra. Al ritorno, però, eravamo convinti poterli battere 5 o 6-0 e in effetti dopo venti minuti già vincevamo 2-0. Poi mi fecero fallo in area, ma l’arbitro non diede il rigore, mente nel secondo tempo fischiò a loro un penalty che non c’era. Vincemmo 4-2 ma la gente era impazzita e infatti ci squalificarono. Loro non potevano uscire dagli spogliatoi, perché fuori li aspettavano 75 mila persone. Era una situazione difficile”. E per quanto riguarda voi, volevate venire in contatto con gli avversario e con l’arbitro? Chiede il giornalista: “Forse”, risponde un Chinaglia divertito. Una squadra composta da giocatori praticamente sconosciuti, come può applicare una calcio bello, divertente, redditizio e passare dalla B allo scudetto in due anni? Long John rende merito ai suoi compagni, ai suoi amici. “Eravamo una squadra forte.In difesa avevamo Oddi che marcava a uomo l’attaccante, Wilson era il libero e puliva l’area, Petrelli e Martini terzini che, però, spingevano. A centrocampo avevamo un grande regista come Frustalupi e larghi D’Amico e Nanni, più un mediano forte che dava tutto come Re Cecconi. Poi c’era Garlaschelli che era un ottimo attaccante”.
Non si può, con Giorgio, non parlare di come quella squadra fosse unica, di come fosse divisa, ma al momento stesso, incredibilmente unita. “C’erano due squadre, eravamo come bambini. Facevamo le partitelle nove contro nove ed c’era sempre uno spogliatoio contro l’altro. Poi i venerdì sera, in queste partite, c’era la guerra, potevamo andare avanti per tre ore e la gente si chiedeva: ‘Ma che diavolo combinano’. Poi, però, la domenica eravamo un solo blocco e lo Scudetto lo dovevamo vincere anche l’anno prima, ma perdemmo all’ultima giornata. Così partimmo, nel 73/74, con l’idea di vincere a tutti i costi e poi così è stato”. Long John se pensa a quei momenti, non può che pensare a quello che, per lui, fu un secondo padre, un confidente, uno psicologo. Tommaso Maestrelli: “Lui era l’artefice principale, l’allenatore che aveva le idee giuste in ogni situazione, le tattiche giuste e i giusti atteggiamenti. A dire la verità non passavo molto tempo con i miei compagni, ero sempre con Maestrelli. La prima volta che ci incontrammo, mi prese da parte e mi spiegò cosa voleva da me, come voleva che io fossi utile alla squadra. Era un grande, lo pensai subito. Per lui ho avuto il massimo rispetto e l’ho considerato un amico”. Gli chiedono della morte di Re Cecconi, di una morte assurda, di un ragazzo che a 28 anni si spegne senza un motivo: “Non ero a Roma, ero in America quando successe. Ero incredulo, non sapevo cosa dire. Ancora oggi rimane inspiegabile. Loro erano soliti fare questi scherzi, ma non sapevano che il gioiellieri, una settimana prima, aveva subito una rapina. Fu una tragedia. L’allenatore morì, Re Cecconi, Frustalupi, Lenzini, Polentes, il dottore e anche il nostro padre spirituale”. Una lista che, 48 ore fa, ha aggiunto anche lui, Long John, l’anima di quella squadra tanto bella quanto sfortunata. Un destino incomprensibile, quasi una maledizione. Lampi di calcio totale, la Lazio più bella di sempre, figlia di un calcio romantico, in bianco e nero. Chinaglia, nell'intervista, si perde tra i ricordi, in una delle sua ultime interviste. “Non era una squadra come le altre. C’erano personalità contrapposte, ma se non avessimo avuto quella personalità quell’intensità, non avremmo vinto il campionato. C’era follia, certo, ma qualsiasi cosa la gente dica su di noi, il nostro obiettivo era lo Scudetto. E ce lo prendemmo”.