ESCLUSIVA - Sosa: "Un gol al derby ne vale 10 in campionato". E su Immobile...

16.03.2023 07:20 di  Lalaziosiamonoi Redazione   vedi letture
Fonte: Lavinia Saccardo - Lalaziosiamonoi.it
ESCLUSIVA - Sosa: "Un gol al derby ne vale 10 in campionato". E su Immobile...

Roma, sabato 29 febbraio 1992. Anno bisestile, di quelli “strani” per tradizione popolare. Via Cassia, quadrante nord della Capitale, è storico feudo laziale. Lo è ancora oggi, dove spicca in mezzo ai pini la villa d’epoca di un certo Stefan Radu. Un tappeto rosso, una strada che assomiglia più ad una walk of fame dove le leggende biancocelesti imprimono forte la loro firma. Quel giorno cammina a bordo strada una figura difficilmente confondibile con la folla e, come il resto della folla, si dirige verso il negozio di frutta e la macelleria in cui di solito va. Con le buste in mano, nel tragitto verso casa, ride e sorride fra sé e sé per quella frase che da tempo ormai sente pronunciare quando si avvicina la fatidica data: “Oh Ruben, domani c’è il derby. Se segni, ti porto tutto quello che vuoi a casa e non ti faccio pagare nulla”. Domani c’è il derby e Sosa lo sa bene. 

RESPONSABILITÀ - Vincerlo era come vincere uno scudetto. Per me era la partita più importante dell’anno. Era una settimana fondamentale, se vincevamo avevamo fatto felice un popolo, ma se perdevamo non volevamo uscire di casa”. Così, Rubén Sosa Ardaiz, per tutti “solo” Ruben Sosa, ha raccontato in esclusiva alla nostra redazione cosa significa vivere dall’interno l’emozione di giocare un derby a Roma. Emozione, ma soprattutto responsabilità. Non c’è parola più adatta per descrivere il “lavoraccio” che era chiamato a fare l’indomani. Ma l’idea caricarsi sulle spalle un popolo intero e trascinarlo al di là della trincea, in un posto sicuro che significava supremazia cittadina, scatenava un’adrenalina pazzesca.

IL PAZZO - “I derby che giocai io furono sempre molto tirati. Finivano sempre 1-0, oppure 1-1. Ricordo una volta in cui fece gol Di Canio: corse sotto la curva dei romanisti, alzò il braccio e lo stadio era come se stesse crollando. Non era andato a festeggiare sotto la curva della Lazio, ma sotto a quella della Roma. Di Canio era un pazzo, giocava benissimo, ma era un vero pazzo”. Ride al solo ripensare a quella scena. Era come entrare nella gabbia dei leoni e sventolargli davanti un pezzo di carne. Di Canio si divertiva a “vestirsi” di rosso e a correre davanti ai tori, in segno di sfida. “Fu un gesto folle, ci mettemmo tantissimo ad uscire dallo stadio”. Ma chi se ne importa. Quel 15 gennaio 1989 la Lazio aveva vinto il derby, importava solo questo.

UN PADRE - Sosa passa da un ricordo all’altro, un fiume in piena di flash, di aneddoti, come se stesse da tempo solo aspettando qualcuno che gli facesse la domanda giusta. Continua a sorridere pensando ai tempi passati e non smette neanche quando il discorso vira su qualcosa di più profondo, di tristemente attuale. Calleri per me è stato un papà. Quel papà adottivo che mi parlava tantissimo. Era molto vicino alla mia famiglia. Era un uomo “normale”, non sembrava un presidente, era uno di noi. Ricordo che entrava nella sala dove mangiavamo tutti e prendeva l’insalata con le mani. Noi ci guardavamo, scoppiavamo a ridere e ci lanciavamo occhiate come per dire “ma cosa fa?” Per me è un grandissimo uomo, è la prima persona importante per la mia carriera”. Ruben parla al presente. Non c'è niente di passato in quello che racconta. Non può essere passato qualcosa che è rimasto così nitido nella mente.

EVOLUZIONE - Ma il presente della Lazio oggi è diverso da quello che ha vissuto: “Quando c’ero io non si andava spesso oltre il decimo posto in classifica. Ora è una squadra forte, con un profilo Europeo. Guardo le partite coi miei figli e mi rendo conto di quanto sia bella da vedere, quanto la squadra giochi bene. La Lazio merita di calpestare i palcoscenici internazionali e le auguro di alzare di coppe in Europa, o magari di vincere un nuovo scudetto”.

PASSAGGIO DEL TESTIMONE - Quanto ci mette un “11” a diventare un “17”? Pochissimo, basta prendere la penna e allungare il tratto. A Formello, quartier generale biancoceleste voluto proprio da “papà Calleri”, di undici ne sono passati di diversi, uno su tutti Miroslav Klose. Schemi saltati, regole non più scritte: chi dice che un bomber debba vestire il nove, il sette o appunto l’undici?. “Immobile è un gran capitano. Ma quando passano gli anni e iniziano gli acciacchi, un giocatore pensa a cosa fare dopo, se andar via o rimanere magari ad allenare le giovanili. Io credo che la Lazio debba fare di tutto per farlo restare, perché quello che ha fatto lui non l’ha fatto nessuno. Parliamo di un grande bomber, un grande uomo. Sta dando tutto sé stesso alla Lazio, si vede che la ama.

In questa stagione difficile per Ciro, martellato dai continui infortuni, ci si chiede ora come si faccia ad immaginare un derby senza il bomber di Torre Annunziata. Se l’è chiesto anche Sosa, dall’altra parte del mondo, che guarda con occhio attento la sua Lazio evolversi: “Di cosa ha bisogno la squadra ora? Di un giocatore come Riedle, un vero numero 9”.

LA FINE - La chiacchierata giunge al termine. Una diga ha lentamente arginato il flusso di ricordi, soprattutto di risate. Ma c’è un un’ultima domanda da fare, forse la più importante: “Se segnai alla fine in quel derby del ‘92? Certo”. E sorride. “Io alla Lazio ho fatto tanti gol, ma fare gol al derby è come farne dieci in tutto il campionato”. Quell’anno Ruben Sosa passò all’Inter per due miliardi di lire. Allo stesso modo Gianmarco Calleri lasciava la Lazio nelle mani di Sergio Cragnotti. Dopotutto, il 1992 era un anno bisestile.

© RIPRODUZIONE RISERVATA - La riproduzione, anche parziale, dell’articolo è vietata. I trasgressori saranno perseguibili a norma di legge