La Lazio e la maledizione del Mito: da Piola a Chinaglia, da Giordano a Di Canio, da Nesta a Signori...Quante bandiere ammainate per forza...

Quando entri al Bernabeu, al Camp Nou, oppure quando varchi i cancelli dell’Anfield Road o dell’Old Trafford, lungo i corridoi respiri un’aria diversa. Quei muri trasudano di storia, su quelle pareti sono esposte con orgoglio le immagini dei trofei alzati al cielo, ma soprattutto dei campioni che nel tempo hanno fatto la storia del club: i miti. Senza miti il calcio, ma lo sport in generale, perde significato, perché senza quelle figure di riferimento la storia di un club si svuota, si disperde, le epoche si mischiano e alla fine la società diventa un’entità fredda, un elenco senza significato di successi e di sconfitte, di trofei esposti in una bacheca senza grande attrattiva né per chi cresce all’ombra di quei colori, né per chi arriva da fuori e non respira aria di storia, di campioni leggendari e delle loro imprese.
La Lazio di storia ne ha tanta alle spalle: non solo per i 111 anni passati dal giorno della fondazione, ma per il modo in cui sono stati vissuti, perché questa società ha visto di tutto, in un alternarsi di gioie e di dolori, di trionfi e di cadute, di successi esaltanti e di momenti tragici che farebbero la gioia di qualsiasi sceneggiatore. O scrittore. E io ne so qualcosa. Ma questa società, fin dalle sue origini, deve convivere con la “maledizione del mito”. Tutti i giocatori che nelle varie epoche sono stati eletti come tali, come emblema della squadra e della società, o hanno fatto una brutta fine oppure hanno visto la loro immagine offuscata da qualche avvenimento (calcistico e no) durante o dopo la fine della loro carriera, con la gente che dopo decenni è ancora divisa nel giudicare. In casa laziale, la linea di confine tra il “mito” e il “traditore” è talmente sottile che a volte si fatica addirittura a scorgerla. Il caso di Beppe Signori, è solo l’ultimo, ma è emblematico. Poteva diventare il più grande cannoniere della storia della Lazio e superare l’inarrivabile Piola se non nei gol segnati in campionato nella classifica dei gol totali, ma è andato via proprio sul più bello, quando la Lazio ha iniziato a vincere e lui da capitano avrebbe potuto alzare al cielo quei trofei che non ha mai vinto. E’ andato via da Formello in un freddo pomeriggio invernale, nascosto nel portabagagli della macchina di un amico per sfuggire a noi giornalisti, lasciando tante domande in sospeso sulle vere cause di quel divorzio. Ha chiuso con la Lazio 13 anni fa, da allora nessun contatto, niente di niente. E oggi, a conferma della “maledizione del mito”, è arrivata anche una condanna a 5 anni per il calcio-scommesse con allegata radiazione, a macchiare o a lacerare il ricordo delle imprese sul campo, delle decine di gol segnati che lo avevano incoronato re dei bomber al pari di Piola, Chinaglia e Giordano, ma nel cuore della gente addirittura “imperatore” di una Lazio che stava varcando i confini nazionali per piantare le sue bandiere in Europa, per imporsi a livello internazionale. Oggi, di Beppe Signori non esistono quasi tracce in casa-Lazio. Non una foto nel centro sportivo di Formello, non un’immagine negli uffici della Lazio allo stadio Olimpico, non una sola istantanea per ricordare a chiunque arrivi alla Lazio che quel piccolo attaccante biondastro è stato uno dei più grandi di tutti i tempi, un “mito”, appunto. Polemiche, veleni e polvere hanno coperto tutto, come era successo con altri “miti” del passato, come è successo con altri “miti” dopo la partenza-fuga di Beppe Signori.
Ma è sempre stato così, fin dalle origini. Fulvio Bernardini, il primo grande “mito” laziale insieme a Sante Ancherani, entrato da bambino nella famiglia biancoceleste e affermatosi con la maglia della Lazio, ha trovato l’immortalità con il suo nome scolpito a caratteri cubitali all’ingresso del centro sportivo della Roma a Trigoria. La casa giallorossa intestata a uno che ha portato il calcio nella Capitale ed era già “mito” quando la Roma neanche esisteva, ad uno che nella Roma non ha vinto nulla e che invece ha legato il suo nome (da allenatore) al primo trofeo conquistato dalla Lazio in 111 anni di storia: la Coppa Italia del 1958. Cose che succedono solo nella Lazio. Ma è solo uno dei tanti esempi.
Silvio Piola è stato il più grande attaccante italiano di tutti i tempi, il marcatore principe e inarrivabile della serie A, ha una media-gol spaventosa con la maglia azzurra, ha segnato gran parte di quei gol con la maglia della Lazio, ma a Roma per molti in casa laziale è quello che fuggì all’inizio della guerra, abbandonando la Lazio senza mai più tornare a Roma, senza mai più legare il suo nome a quello della società in cui aveva vissuto gli anni più belli della sua carriera. Non un traditore, ci mancherebbe altro, ma uno che ha fatto di tutto per non essere considerato un “mito”.
Giorgio Chinaglia, quarant’anni dopo, ha ripercorso le orme di Silvio Piola. Non ha segnato tanto come lui, ma i suoi gol sono stati molto più pesanti. E’ stato l’uomo e il simbolo del primo scudetto laziale, il campione dalla vita avventurosa e burrascosa, il simbolo per generazioni di laziali più o meno giovani che identificandosi in lui che da solo sfidava l’intera Curva Sud trovavano nella vita di tutti i giorni il coraggio per sfidare o affrontare a testa alta i “cugini”, in un rapporto di forze che a volte era di dieci a uno. Sì, Giorgio Chinaglia era veramente l’emblema del mito all’inglese, un George Best o un Bobby Charlton, oppure un Santillana, un Johan Cruijff o un Franz Beckenbauer. Ma ha rovinato tutto. Prima la fuga negli Stati Uniti abbandonando la sua Lazio che rischiava la retrocessione, poi il ritorno da presidente acclamato al suo arrivo e insultato alla partenza dopo aver portato la società sull’orlo del fallimento. Poi, l’ultima triste e più dolorosa pagina del secondo ritorno, con il tradimento verso chi aveva creduto in lui ed è finito in carcere per averlo seguito, mentre lui si dava alla fuga, alla latitanza. Per molti della mia generazione o anche più vecchi di me, il Chinaglia calciatore è ancora un “mito”, ma per chi non ha vissuto l’era del Long John calciatore, è solo una bandiera strappata, una macchia di fango sulla foto storica di lui che esulta con il dito puntato verso la Curva Sud, in segno di sfida.
Bruno Giordano è stato il suo erede. E tutti sappiamo come è andata a finire. Poteva diventare il più grande di tutti i tempi, ma tra lo scandalo scommesse e la rottura del rapporto con la Lazio dopo la più brutta retrocessione della storia biancoceleste, anche su di lui i laziali sono divisi tra chi lo considera il più forte di tutti i tempi e chi a distanza di decenni non gli ha perdonato la macchia dello scandalo scommesse.
Diversa ma per certi versi simili la vicenda di Paolo Di Canio, che può essere considerato una sorta di anello di congiunzione tra Chinaglia e Giordano: la grinta e la leadership di Long John, unita alla classe cristallina di Bruno. Un mix perfetto per entrare di diritto nella storia come un “mito”. Invece, il destino ci ha messo lo zampino. Le liti con Calleri provocarono il primo strappo, la partenza verso Torino con il marchio del tradimento stampato in fronte, unico esempio di giocatore laziale che al ritorno all’Olimpico da avversario è stato fischiato e contestato dai suoi ex tifosi e al tempo stesso insultato come nessuno prima e dopo dai tifosi giallorossi. Il tempo ha ricucito il rapporto, trasformando l’odio per il presunto tradimento in rimpianto. Poi, il ritorno trionfale a Roma, il contratto strappato con gli inglesi del Charlton e la rinuncia a un milione di euro all’anno pur di coronare il suo sogno di indossare nuovamente quella maglia biancoceleste nel derby. Un ritorno ancora più carico di significati perché arrivato in uno dei momenti più difficili della storia laziale, quando tutti gli idoli del recente passato scappavano a gambe levate da Formello perché i soldi erano finiti e si annunciavano annate da vacche magre. Il ritorno e il gol nel derby, ancora una volta sotto la Curva Sud, ancora una volta esultando in faccia agli odiati nemici, ancora una volta decisivo e in grado di regalare una vittoria inattesa da festeggiare come e più della conquista di un trofeo. Il lieto fine sembra dietro l’angolo, il piedistallo per il “mito” è già pronto, ma per l’ennesima volta il rapporto si rompe e la bandiera si lacera. Paolo va via gonfio di rabbia e di rancore verso chi gestisce la società e le sue parole da opinionista televisivo sono piene di odio verso Lotito, ma si trasformano agli occhi della gente in veleno e fango contro la Lazio. Il “mito”, così, diventa per qualcuno un traditore, per altri addirittura uno “sporco romanista”. Per altri resta “mito”, ma il suo nome continua a dividere e a far discutere e litigare.
Come fa discutere e litigare il nome di Alessandro Nesta, forse il talento più puro uscito dal settore giovanile della Lazio, probabilmente il più grande calciatore romano e laziale di tutti i tempi per successi ottenuti, classe in campo e stile fuori dal rettangolo di gioco. Tutti gli ingredienti giusti per entrare nella storia come un “mito”, ma per molti quella partenza per Milano nell’estate del 2002, senza neanche un’intervista per spiegare le ragioni del divorzio o un saluto in campo o sulle pagine dei giornali, rappresentano una macchia indelebile. E chi non lo considera traditore per quel divorzio più subito che voluto dalla Lazio, lo considera un mezzo capitano o addirittura un traditore per il suo non rientro in campo dopo un burrascoso intervallo nell’ultimo derby disputato con la maglia della Lazio, quello del 5-1. E’ destino.
Un destino crudele che se non strappa le bandiere in campo, le strappa portando via dalla vita terrena i “miti” o candidati ad essere tali troppo presto. E’ successo con Tommaso Maestrelli, è successo con Luciano Re Cecconi e con Giuliano Fiorini, che in pochi anni sono riusciti a scrivere pagine leggendarie che meriterebbero l’immortalità. Invece, nessuno di loro ha il proprio nome accostato ad un centro sportivo, ad un trofeo. Certo, Maestrelli ha la Curva Sud intitolata a suo nome, quello stesso settore che conta talmente poco per la Lazio attuale al punto che in questa stagione la società ha deciso addirittura di escluderlo dai posti riservati agli abbonati, di lasciarlo addirittura chiuso nelle partite che la Lazio giocherà all’Olimpico.
La chiusura, triste, è dedicata ad uno che un “mito” lo è stato e lo sarà per sempre, a giudizio unanime: Bob Lovati. Come recitava uno striscione: “Si scrive Lovati, si legge Lazio”. Basta questo per essere considerato un “mito”. In Inghilterra o in Spagna, uno come Lovati avrebbe avuto un vitalizio, un posto riservato in tribuna in ogni partita (magari come avviene in Inghilterra, addirittura con una poltroncina con il suo nome stampato sopra) e l’ingresso libero nel centro sportivo, come emblema della “Lazialità”, come fonte preziosa a cui i nuovi arrivati in casa-Lazio potevano attingere per conoscere la storia, per capire che cosa significa essere laziali. Il “mito”, invece, negli ultimi anni della sua vita si è visto ritirare dalla società la tessera che gli garantiva l’accesso allo stadio Olimpico, è stato allontanato da Formello come tanti anziani che vengono considerati scomodi o ingombranti e quindi da relegare lontano da casa, in qualche ospizio. Dopo la sua morte, tante promesse: un busto a Formello, la sala stampa del centro sportivo con il suo nome, parole restate come sempre tali e spazzate via dal vento. A dimostrazione che, probabilmente, la Lazio non si libererà mai della “maledizione del mito”. Perché forse c’è fin dall’origine qualcosa di misterioso o di inspiegabile nel dna di questa società e in questo ambiente che prova un gusto quasi sadico nello strappare le proprie bandiere, nel rinnegare la propria storia e i personaggi che l’hanno trasformata a volte in leggenda.