Torneo Paparelli, il fratello Angelo: "Bello vedere tanti ragazzi ricordare Vincenzo. Sogno che il Comune gli intitoli una via di Roma..."

"Il torneo è intitolato a Vincenzo, per me è un piacere vedere questi ragazzi che crescono secondo i valori dello sport e nel ricordo di mio fratello". A parlare è Angelo Paparelli, lo fa a margine del torneo "Vincenzo Paparelli, uno di noi", dedicato alla categoria giovanissimi e al quale prendono parte società di tutta Roma. Vincenzo uno di noi, cittadino di Roma, padre di famiglia, come quelli che riempiono le tribune del centro centro sportivo del Real Boccea. Genitori sorridenti e terreno perfetto che fa da tappeto a giovani calciatori di quindici anni che si sfidano con rispetto e lealtà. Non c'è spazio per violenza, volgarità e astio. Qui il calcio indossa il suo abito migliore, il più puro, quello senza macchie che troppo spesso sporcano il mondo dei grandi. Angelo Paparelli è seduto in disparte, non cerca l'attenzione della folla: "Sono qui perché su questo campo sono cresciuto anche io, con Vincenzo organizzavamo tornei e chi perdeva poi doveva preparare la carne alla brace per tutti", racconta commosso ai microfoni de Lalaziosiamonoi.it. Nel bar del centro sportivo campeggia la foto di Vincenzo, vicino un gagliardetto biancoceleste. Le parole di Angelo sono rotte dall'emozione, i ricordi sono vivi, colpiscono al cuore, le lancette sembrano tornare indietro di tanti anni. Sullo sfondo le indicazioni degli allenatori, il rumore del pallone che gonfia la rete e gli applausi dei presenti. Le partite si susseguono, c'è agonismo, voglia di vincere, ma nessun tipo di recriminazione al fischio finale dell'arbitro. Mentre la chiacchierata con Angelo va avanti l'Astrea sfida il Nuovo Valle Aurelia (2-1 per i biancazzurri il risultato).
Quali sono le sensazioni nel vedere tanti ragazzi giocare a calcio nel nome di Vincenzo? "Per me è una grande soddisfazione, una cosa che mi riempie di gioia. Io vengo qui per conto mio, non sono un organizzatore, ma mi rendo conto che il ricordo di mio fratello è vivo nella gente e anche nei ragazzi che sanno tutto di lui e anche chi non lo conosce, la volta successiva torna informato e colpito da quanto accaduto. Vincenzo deve essere un esempio per i giovani, era un padre di famiglia, lavorava onestamente e aveva la passione per la Lazio. Non era un violento, non aveva grilli per la testa, è stato vittima di un destino crudele. Devo ringraziare gli organizzatori del torneo e anche i partecipanti perché regna l'educazione e la serenità. Ed è la cosa più importante".
Qual era il vostro rapporto? "Io e Vincenzo eravamo più che fratelli, eravamo colleghi, ma soprattutto amici. Condividevamo il lavoro, le serate in famiglia, le passeggiate in bicicletta, abitavamo porta a porta, eravamo confidenti, uno era la spalla dell'altro. Lui era un laziale sfegatato, io romanista. Ogni derby era una scommessa diversa, ci giocavamo una bottiglia di Martini, oppure una cena. Chi perdeva doveva cucinare per l'altro. Insieme facevamo il vino, la grappa, era una rapporto unico. Vincenzo era il riferimento della famiglia, soprattutto dopo la morte dei nostri genitori. Io di lui ho un ricordo bellissimo, sono passati più di 35 anni ma è come se il tempo si fosse fermato".
Cosa ricorda di quel maledetto 28 ottobre? "Dovevamo andare allo stadio insieme, lui non aveva ancora acquistato il biglietto, mentre io avevo la tessera essendo un Roma-Lazio. La notte di sabato, però, mia moglie si sentì poco bene, era incinta, dunque io preferii non lasciarla sola. Quindi, al mattino, andai a bussare a casa di Vincenzo e gli dissi che avrei lasciato la mia tessera a lui e quindi avrebbe dovuto comprare il biglietto solo per la moglie Wanda. Mi ringraziò, era felice. Io andai dai miei suoceri, ma nel primo pomeriggio mi arrivò una chiamata che mi avvertiva che era scoppiato un petardo vicino a Vincenzo e che lo stavano portando all'ospedale Santo Spirito".
Quando capì che era successo l'irreparabile? "Mentre guidavo ebbi un sussulto, la sensazione che fosse successo qualcosa di veramente grave, mi vennero i brividi. Mio fratello aveva paura degli ospedali, dei medici, se fosse stato qualcosa di poco conto non si sarebbe mai fatto ricoverare. Arrivai all'ospedale, c'era sua moglie fuori e aveva lo sguardo assente, perso nel vuoto, le chiesi dov'era Vincenzo e lei mi disse che non c'era più. Lì tutto il mio mondo crollò, niente fu più come prima".
Il ricordo di Vincenzo, a volte, viene sporcato da qualche persona dotata di poco cervello: "Chi fa quelle cose non è un tifoso, è gente che cerca visibilità, sono persone vuote, gli stupidi non vanno considerati".
Quanto le dà fastidio il silenzio delle Istituzioni quando accadono certi fatti? "Fastidio è riduttivo, diciamo molto comunque. Sono 35 anni che lotto per far intitolare una strada di Roma a Vincenzo, sarebbe un bel segnale in risposta a chi ancora offende la memoria di mio fratello. Ma ormai mi sto arrendendo. Dopo tanti anni, si occuparono gli Irriducibili di porre una targa fuori dalla Curva Nord, qui vicino c'è un giardino intitolato a Vincenzo che, però, spesso è preda di vandali e comunque poco curato. L'unica persona che tengo a ringraziare è Walter Veltroni che per me e la mia famiglia ha fatto tanto, soprattutto quando mi ammalai e persi il posto di lavoro. Ma ripeto, il mio sogno -prima di morire- sarebbe quello di veder a lui intitolata una strada di Roma. Credo lo meriti".
Se le chiedo il sentimento che prova nei confronti di Giovanni Fiorillo, cosa mi risponde? "Non odio, non provo odio. Compassione, anche perché poi se n'è andato anche lui con tanti problemi per via della droga. Spesso mi ha cercato per chiedermi perdono, per dire che non voleva fare quello che ha fatto. Ma il gesto resta folle e sconsiderato,, ma credo che la responsabilità sia anche di chi non ha controllato a dovere, perché non è possibile far entrare allo stadio quel tipo di materiale".
Dalla Lazio, dalla Roma arrivano mai segnali? "Quando le luci dei riflettori erano ancora accese le promesse si sprecavano, poi il silenzio più assoluto. Da una parte e dall'altra".
So che poi, però, il destino l'ha ripagata: "Pochi mesi dopo la morte di Vincenzo nacque la mia prima figlia. Valentina. Dopo quattro anni, mia moglie rimase di nuovo incinta. Noi, in famiglia, non usavamo dare i nomi dei padri o dei nonni, ma quella volta dissi a mia moglie che se fosse nato maschio lo avrei voluto chiamare Vincenzo. Il giorno del parto, rimasi fuori dalla sala operatoria, c'era un telefono con il quale poter comunicare con l'interno. Dopo qualche ora di attesa, sentii lo squillo del telefono e la voce di mia moglie che mi disse: "Ti ho fatto Vincenzo". La commozione prese il sopravvento, fu un momento speciale, unico, il più intenso della mia vita".
Ha mai conosciuto la famiglia Sandri? "Sì, li ho conosciuti, anche il piccolo Gabriele. C'è un bel rapporto, anche se non ci vediamo spesso, mio nipote Gabriele credo li frequenti più spesso facendo parte del mondo biancoceleste. Li ho incontrati quando ci fu la cerimonia d'inaugurazione del giardino intitolato a mio fratello, sono delle persone squisite".