Lazio all’angolo: errori, VAR e rispetto negato. Ora basta
La sensazione è ormai netta, difficile da scacciare: combattere ad armi pari non è più possibile.
La Lazio è finita all’angolo. Non per limiti tecnici, non per mancanza di carattere, ma per una sequenza di episodi che hanno scavato solchi profondi, uno dopo l’altro, fino a rendere l’equilibrio una parola vuota. Il gol beffa di Davis, viziato da un colpo di mano evidente, è solo l’ultimo tassello di una storia che ha superato il confine della tollerabilità. Non è rabbia a caldo. È constatazione.
Milan, Bologna, Parma, Cremonese, Udinese. Cambiano gli stadi, cambiano gli arbitri, ma il copione resta inquietantemente simile. Decisioni sbagliate, VAR che entra in confusione, VAR che prova a correggere l’errore e viene sconfessato, fino all’assurdo di vedere chi richiama l’arbitro finire sotto accusa. È accaduto anche in Milan-Lazio, quando per negare un rigore solare si è arrivati a inventare un fallo che non esisteva, pur di ribaltare l’evidenza.
A questo punto è legittimo dirlo: la bilancia non è solo inclinata, è sbilanciata in modo irreversibile. Pensare che tutto possa tornare in equilibrio a fine stagione è un esercizio di fede che oggi non trova riscontri nella realtà. La Lazio aveva scelto la strada della fiducia istituzionale. Aveva deciso di restare sopra le parti, di non alimentare polemiche, di credere nel principio che “la legge è uguale per tutti”. Lo stesso principio che campeggia nelle aule dei tribunali e che il club aveva fatto proprio, arrivando persino a contenere l’indignazione del proprio allenatore, uno che con la diplomazia convive poco per natura.
Maurizio Sarri lo aveva detto. Lo aveva detto in modo brutale, scomodo, impopolare: “Dovremmo prendere l’arbitro all’estero”. Una frase che fece scalpore, che venne ridicolizzata, minimizzata. Oggi quella frase suona meno come una provocazione e più come una diagnosi precoce ignorata. Quanto sarebbe stato meglio ascoltarlo allora, invece di tappargli la bocca in nome di una correttezza che non è stata ricambiata.
Perché qui non è più in gioco una singola partita. È in gioco il rispetto di un’idea, di un popolo, di una comunità che ogni domenica riempie strade, treni, autostrade, stadi. Un fiume di bandiere che scorre dietro la Lazio senza chiedere favori, ma pretendendo equità. Questo squilibrio reiterato nei giudizi non colpisce solo la classifica: volta le spalle alla dignità della gente.
Oggi il silenzio della Lazio si è finalmente spezzato. Il comunicato è un grido, non una strategia. È una sirena che suona tardi, forse, ma suona forte. Il video con la sequenza di errori da Como a Udine lascia di stucco e fa dire solo una cosa a gran voce: "Basta". Basta abbassare la testa, basta confidare nel tempo che sistema tutto, basta sperare che qualcuno si accorga spontaneamente dell’ingiustizia. I diritti vanno rivendicati, non sussurrati.
Se la Lazio è un ideale.
Se i laziali sono persone per bene.
Se il calcio è ancora uno sport che pretende di dirsi equo.
Allora è doveroso pretendere giustizia. Non per vincere di più, ma per essere giudicati allo stesso modo. Non per alzare la voce, ma per non essere schiacciati dal silenzio. Perché accettare tutto, sempre, non è correttezza: è resa. E la Lazio, oggi, non può più permettersi di arrendersi.
