Luis Alberto racconta tutto: "Dopo tre mesi alla Lazio volevo smettere"
Lunga intervista ai microfoni di Fanpage.it per Luis Alberto. L'ex centrocampista della Lazio, ora all'Al Duhail in Qatar, ha raccontato il suo periodo nella Capitale, tra Inzaghi, Sarri, Lotito e tanti altri temi. Di seguito le sue parole.
Luis Alberto, se torni con la mente a San José de Valle, qual è il tuo primo ricordo di quei giorni?
"Il primo ricordo che ho è quello di giocare da solo a calcio davanti a mia mamma, nella piazza dove c’era il suo negozio. Poi ce ne sono tanti legati alle partite con gli amici, però il primo ricordo è quello".
Quando hai capito che saresti diventato un calciatore?
"Ricordo ciò che mi diceva mia mamma, ovvero che a 7-8 anni avevo sempre promesso a mio padre che sarei diventato calciatore e che dopo di quello le avrei fatto un regalo: comprarle un campo lì nel mio paese".
E infatti, ricordi cosa hai fatto con il primo stipendio?
"Penso che i primi soldi siano sempre passati da mia mamma. Io non li ho mai visti. Fino a 18 anni non ho visto un euro. C’era sempre la mamma: ha comprato la prima casa, ha fatto tutto lei".
Invece al Siviglia è stata la prima grande esperienza. Ti sei sentito per un momento non all’altezza della situazione?
"Ricordo che al terzo o quarto anno, quando ero ancora giovane, a 14 anni, non giocavo tanto perché eravamo del primo anno e dovevamo giocare con quelli del secondo. Il mio fisico era troppo magro e l’allenatore diceva sempre che non mi permetteva di giocare in quella competizione. Poi è arrivato un altro allenatore con un’altra mentalità e mi ha impiegato sempre. Da quel momento fino a oggi ho praticamente sempre giocato".
Dopo il Siviglia sei arrivato in Italia, alla Lazio. Era il 2016.
"Ricordo che ero a Liverpool, avevamo fatto il trasloco da La Coruña, dove avevo trascorso un anno. Ero con un compagno, Alberto Moreno e a un certo punto era arrivato il camion con tutte le cose. In quel momento stavo andando in macchina a casa di un mio amico quando mi ha chiamato il procuratore. Era l’ultimo giorno di mercato o mancava un giorno, dovevamo decidere velocemente perché era una questione di 24 ore".
E cosa accadde?
"Gli dissi di aspettare cinque minuti, che sarei arrivato a casa del mio amico. Parlai anche con i suoi genitori, con cui ho un bellissimo rapporto. Chiamai mia moglie, parlai con un po’ di gente e in cinque minuti decidemmo che la cosa migliore per me era andare alla Lazio e provare questa esperienza. È stata una sorpresa, anche se mi prese un po' alla sprovvista. Ricordo poi di aver preso l’aereo e di essere arrivato a Roma da Liverpool poi a Vienna. Il primo giorno ero un po’ con la testa persa, perché era successo tutto così velocemente".
Arrivi alla Lazio e trovi delle difficoltà, inizialmente.
"In realtà ero stato presentato come esterno destro. Era tutto nuovo ed è stato tutto molto veloce. I primi quattro o cinque mesi sono stati devastanti per me, perché non capivo niente. È vero che non giocavo, ma poi è cambiato tutto, soprattutto la cosa più importante: la mia mentalità e il mio lavoro. Lì ho fatto vedere a Simone (Inzaghi ndr) che dovevo giocare".
Hai un ricordo speciale dei primi momenti alla Lazio?
"È successo tutto così in fretta. Chiamai subito Patric perché avevo giocato con lui nel Barcellona B. È stato il primo a presentarmi a tutti. Poi è arrivato anche Lucas Biglia, che parlava la mia stessa lingua. Ricordo che ero seduto e mi disse: ‘Ma tu che ca**o fai qua?’. Io risposi: ‘Non lo so neanche io in questo momento’”.
E ti sei trovato subito benissimo.
"C’era un bel gruppo, un allenatore nuovo ma simpatico, che sapeva come portare avanti un gruppo. È stato tutto molto facile".
Quando è arrivato il cambio tattico che ti ha fatto svoltare?
"Quell’anno ho giocato pochissimo, forse le ultime tre o quattro partite. A gennaio avevo giocato due partite in sostituzione di uno squalificato e un altro giocatore convocato in Coppa d’Africa. Ma in generale a gennaio era cambiata la mia mentalità. Ne parlavo anche l’altro giorno con Igli: mi disse che quello era il giocatore che aveva preso, non quello di prima. Prima mi massacrava perché non stavo dando il 100%, ed era vero. Ho iniziato a lavorare anche con il mental coach e da quel momento ho sentito un rapporto diverso con lo staff, mi sentivo più dentro al gruppo".
Da lì è stato un crescendo.
"Poi c’è stato il ritiro ad Auronzo, quando Inzaghi mi ha detto che quello sarebbe stato il mio ruolo. Ho giocato 90 minuti la finale contro la Juventus, vinta per 3-2, per poi disputare da titolare praticamente tutto l’anno. È stato un bel campionato, con tanti gol e assist".
In Italia sei diventato un simbolo del fantacalcio. Ne avevi la percezione?
"Quando mi parlavano di fantacalcio dicevo sempre ‘per favore non rompetemi più’ (ride ndr). Quando andava bene era tutto bello, quando prendevo un giallo o non facevo gol era un disastro. Anche su Instagram a chi mi scriveva dicevo: ‘Lasciatemi tranquillo, questo non è il mio lavoro’”.
Qualche compagno ti prendeva al fantacalcio?
"Non so, forse Cataldi. Anche io gioco a una specie di Fantacalcio in Spagna, ma non contatto nessuno (ride ndr)".
Nel 2020 dicesti che la Lazio avrebbe potuto vincere lo Scudetto, senza la pandemia.
"Quell’anno, per mentalità e per come giocavamo, era difficile non arrivare fino alla fine per vincere lo Scudetto. Era una squadra che giocava a occhi chiusi. All’Olimpico spesso vincevamo già nel primo tempo".
Era quello il segreto?
"Per sei-sette mesi non c’era sofferenza in campo. Anche quando andavamo sotto, vincevamo al 90’, 92’, 93’. Si percepiva che in pochi secondi potevamo fare uno o due gol. In campo eravamo felici, ci divertivamo. Senza il Covid, secondo me, fino alla fine ce la saremmo giocata per lo Scudetto".
Hai detto che alla Lazio ci sono persone che non capiscono di calcio. Cosa intendevi?
"Sì, c’è gente lì dentro che non capisce di calcio e lo dirò sempre. Eravamo un gruppo sano, con un allenatore amico e un direttore sportivo che sapeva quando mettere pressione e quando no. Poi è arrivato Sarri, che è un maestro. Quando è andato via sapevo che la Lazio non sarebbe andata da nessuna parte".
Com’era Inzaghi negli allenamenti?
"Sembrava nervoso sia in allenamento che in partita ma in realtà non era così. Capiva il calciatore perché aveva smesso da poco di esserlo. A volte devi essere un sergente di ferro, ma devi anche lasciare i giocatori sereni. Quando tutti giocano felici, si rende di più".
C’è mai stata una telefonata di Inzaghi per portarti all’Inter?
"No, mai. E non credo sarebbe stato giusto".
C’è una partita che ti ha tolto il sonno?
"Partiamo dal presupposto che dormo sempre male quando gioco. Ma ricordo una partita col Napoli in casa… Anche un’altra ad Oporto in cui ho avuto due o tre occasioni per segnare. Mi sentivo in colpa".
Qual è stato il tuo rapporto con Lotito? È stato lui la causa del tuo addio?
"Sì, è uno dei motivi. Ho litigato tante volte con lui. Lo conosciamo tutti, sappiamo com’è. Fortunatamente non è più il mio presidente. Non c’è nessun rapporto d'amicizia e non ci sentiamo più".
Torneresti se ti dovesse chiamare Sarri?
"Sì, ma mi deve chiamare Sarri".
Un ritorno con Milinkovic, Immobile, Luis Alberto?
"La vedo difficile tornare dopo il nostro addio. Ma non si sa mai".
Ora sei in Qatar. Come è nato l’addio alla Lazio?
"Mi volevano già l’anno prima. Dopo quella stagione in cui arrivammo secondi parlai di quell’offerta, ma Sarri mi disse di no. Gli avevo detto che sarei rimasto lì per lui. Quando però è andato via, sapevo che non aveva più senso restare, dovevo cambiare. Dopo due o tre mesi in Qatar ho trovato tranquillità. È un’altra vita e siamo felici. Penso di aver fatto la scelta giusta".
La differenza principale con l’Europa?
"La sicurezza è la prima cosa: nessuno ti guarda male, si vive in maniera tranquillissima. Posso uscire con i miei figli senza problemi, andare in un centro commerciale e fare ciò che non potevo fare a Roma, anche una cena tranquilla. Per la famiglia è meraviglioso".
È vera la ricchezza del Qatar?
"Sì, ma non sono tutti sceicchi. La maggior parte delle persone viene da fuori: Argentina, Filippine. Tra 20-30 anni sarà un altro paese. La ricchezza però c’è e già si vede".
Hai mai ricevuto un regalo prezioso come quelli dati a Cristiano Ronaldo?
"Sì, lo sto ancora aspettando! (ride ndr). No, non mi è mai capitato. Qui è un po’ diverso dall’Arabia. Nessuno regala niente a nessuno".
Sei sorpreso dalla situazione della Lazio?
"Non sono sorpreso, sapevo che qualcosa poteva succedere".
Hai avuto modo di sentire qualcuno dei tuoi ex compagni?
"Sì, Cataldi lo sento spesso. Parlo molto con lui, con Patric, con Mario (Gila ndr), con Pedrito. Ho parlato anche con il Taty, però loro, come dico sempre, non possono fare nulla: la situazione è questa".
Hai visto le loro ultime partite?
"Sì e sono certo che anche quella di Milano potevano tranquillamente vincerla o pareggiarla, poteva succedere di tutto. Li ho visti anche in nove contro il Parma e sono sempre rimasti in partita e alla fine hanno vinto. In generale penso siano migliorati molto".
Nello spogliatoio della Lazio chi era il più simpatico?
"Sicuramente Radu era quello che rompeva il ca**o dalla mattina alla sera. Quando giocava bene entrava nello spogliatoio sempre urlando, dicendo cose che solo lui poteva dire. Poi c’era Cataldi, un altro che faceva sempre ridere: per uno spogliatoio persone così sono fondamentali".
Come ci si carica prima di un derby a Roma?
"Io credo che per una partita così non ci sia nemmeno bisogno di grandi discorsi. Serve più motivazione quando giochi contro squadre che stanno sotto in classifica, perché lì rischi di scendere in campo più scarico. Per il derby invece sai benissimo cosa ti giochi. Se perdi, devi restare chiuso in casa fino alla partita successiva, come minimo. Credo che tutti abbiano anche quella paura di perdere che ti tiene sempre sul pezzo".
Quanto ti ha cambiato il calcio?
"Il calcio mi ha cambiato molto. Quando devo parlare al gruppo, a volte esce anche il lato peggiore di me. Il calcio influisce tantissimo sul mio umore: quando le cose non vanno bene, quando non riesco a vincere, faccio fatica. In quei momenti non mi piace parlare con nessuno, ho bisogno di stare tranquillo, di prendermi il mio spazio".
E cosa fai?
"Devo tornare a casa e avere i miei tempi. Però, per quanto riguarda il modo di vivere e di stare con gli amici, il calcio non mi ha cambiato affatto. Ho gli amici di una vita e non li cambierò mai".
Il primo campo da calcio che ricordi?
"Posso dire il Barbadillo: è il campo dove giocava mio fratello e io ero sempre lì con lui".
Il gol a cui sei più affezionato?
"Quello segnato a Napoli, di tacco. Me lo ricordo benissimo, anche per lo stadio, per l’atmosfera, per tutto. Chiaramente la partita in sé è stata ancora più importante del gol".
La partita più bella che hai giocato?
"Tutti mi dicono quella contro il Milan, ma a me è piaciuta molto anche quella una che giocai a Parma".
Il compagno che porteresti ovunque con te?
"Sergio Rico".
Un rimpianto?
"Di non aver giocato di più in Nazionale".
Una scelta che rifaresti altre mille volte?
"Giocare con la Lazio".
Il momento più duro lontano dalle telecamere?
"Quando volevo smettere dopo essere arrivato alla Lazio, erano trascorsi solo tre mesi. Vedevo tutto nero, ero completamente bloccato".
Cosa diresti a chi vive la tua stessa situazione?
"Se hai bisogno di aiuto, devi lavorare tantissimo sulla testa, che per me è la cosa più importante: penso che rappresenti l’80% di un calciatore".
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"Sono stato molto felice di aver vissuto otto anni alla Lazio. Di aver conosciuto tante persone, Simone, che devo ringraziare, e anche Sarri e Tare. Ringrazio tutta la tifoseria, la curva che mi ha sempre sostenuto e supportato. Grazie a tutte le persone che ho conosciuto fuori dal campo, con cui sono ancora in contatto che ho rivisto quando sono tornato a Roma. Per me è importante la persona, solo dopo viene il personaggio Luis Alberto".
