LAZIALI DOC - Dal tifo al giornalismo, dal ricordo di Chinaglia alla Lazio attuale: Pietro Pasquetti si racconta... "La società dovrebbe circondarsi di gente laziale"
Pubblicato ieri alle 18.00

"E ora la parola passa a Pietro Pasquetti": quando le pay-tv non facevano ancora il bello e il cattivo tempo, quando non esisteva alcuna app per scorrere i risultati di qualsiasi partita sul cellulare, due erano gli appuntamenti fissi ed esclusivi nella domenica sera di ogni tifoso di calcio. Il primo era 90° Minuto, su cui tanta letteratura sportiva ha speso fiumi d'inchiostro. Il secondo si trovava - e si trova ancora - all'interno del Tgr Lazio, nel momento in cui il conduttore del telegiornale passava la parola, appunto, a Pietro Pasquetti per il punto su Lazio, Roma e su tutte le categorie inferiori. "La gente aspettava solo noi per sapere cosa avevano fatto le altre squadre rivali della regione", sottolinea con un pizzico d'orgoglio l'attuale vicedirettore del Tg3 e responsabile dello sport di tutte e venti le regioni italiane. Armati di registratore e macchina fotografica, noi della redazione de Lalaziosiamonoi.it siamo andati a fargli visita nel suo studio a Borgo Sant'Angelo, a due passi da San Pietro. Da qualche tempo, infatti, la direzione del Tg3 non si trova più a Saxa Rubra, dove è rimasta la redazione, ma è stata trasferita nel cuore della Capitale. All'ingresso l'uscere ci domanda molto cortesemente se avessimo un appuntamento e, appena sente pronunciare la frase "Siamo de Lalaziosiamonoi.it", capisce subito l'antifona: "Aaaaah cercano Pietro...", con quel tono inconfondibile di chi ha tutta l'aria di tifare per l'altra squadra della città. A suo malincuore, però, il ruolo che ricopre lo costringe all'estremo sforzo di consegnarci i pass, grazie ai quali saliamo al piano dove ci attende Pietro Pasquetti. Il vicedirettore ci fa accomodare nel suo studio, dove è impossibile non notare la parete dietro la scrivania completamente ricoperta da poster con le immagini della Curva Nord. Alla sua destra, la coreografia dello scorso derby d'andata, vinto grazie al gol di Klose all'ultimo secondo; alla sua sinistra, invece, campeggiano gli scatti della notte di Lazio-Napoli, l'intensa serata dedicata a Giorgio Chinaglia. Con un'accoglienza così ci vuole poco a sentirsi a proprio agio; mettici poi la gentilezza di Pasquetti e quella che doveva essere un'intervista diventa subito una piacevole chiacchierata. E' lo stesso vicedirettore ad aprire il cassetto dei ricordi e ritornare agli albori della sua lazialità:
"La mia passione per la Lazio nasce tantissimi anni fa, negli anni '60. Era più o meno il 1963, quando per la prima volta misi piede allo stadio. Quella era una Lazio umile, che aveva appena conosciuto la Serie B, composta di giocatori di cui la maggior parte dei tifosi probabilmente non ricorda neanche il nome. In quel periodo abitavo tra Sacrofano e Formello, andavo allo stadio con mio zio, un autotrasportatore e mio padre, che aveva un piccolo negozio. Dal momento che di soldi ce n'erano pochi, partivamo a bordo di un camion scoperto, arredato con i banchi come quelli delle chiese. Ogni volta eravamo almeno una trentina là dentro. Ogni partita era come una festa, si partiva tutti insieme per andare allo stadio. Alcune volte, quando tornavo a casa, mia madra si arrabbiava, perché magari durante la partita era piovuto e io mi presentavo tutto inzuppato, con il raffreddore. Ho dei bellissimi ricordi di quel periodo. Da lì in poi la mia fede è sempre aumentata, l'ho trasmessa a mio figlio che, da ormai 30 anni, è un assiduo frequentatore della Curva Nord. Anche lui, come successe a me, venne allo stadio per la prima volta con la Lazio in B nell'anno del - 9. Si innamorò lo stesso perdutamente di questi colori e non li abbandonò più, oltre al fatto che poi ha giocato nella Lazio Rugby.
Alla passione per i colori biancocelesti si unì ben presto quella per le tinte bianco e nere della carta stampata. Prima di diventare un volto noto del Tg regionale, infatti, Pasquetti ha trascorso gli anni della cosiddetta gavetta in una redazione di un quotidiano:
Io vengo dal Popolo, che era il giornale della Democrazia Cristiana. Nei quotidiani di partito ti pagavamo quando potevano, però mi hanno permesso di diventare giornalista. Io prevalentemente ho sempre seguito lo sport, ma al Popolo stavo in cronaca, anche perché nelle redazioni più piccole non c'era una redazione divisa in compartimenti stagni. Quindi il direttore mi chiese di dare una mano per i servizi sportivi. All'epoca, il capo servizio dello sport era il papà di Fabrizio Summonte, famoso giornalista del TG5. Poi nel 1979 nacque la testata del Tg3, arrivai all'inizio degli anni '80.
Nel mondo del giornalismo, c'è chi considera lo sport come stampa di "Serie B", rispetto alle più quotate politica, economia e cultura. Pasquetti, invece, è di parere completamente opposto:
Io credo che chi non abbia mai fatto sport o cronaca, non abbia mai fatto veramente questa professione. Nello scrivere per la terza pagina (che nel gergo giornalistico indica la sezione di cultura e spettacoli ndr), per un saggio di economia o di politica estera, infatti, manca l'immediatezza degli eventi che c'è nello sport. L'immediatezza è tutto, appena la partita termina, entro cinque minuti devi scrivere il pezzo. L'immediatezza sta proprio nel raccontare l'evento subito dopo. Quando fai televisione è ancora diverso. Io seguito i Mondiali, le Olimpiadi, la Coppa Libertadores: nel momento che, tramite il satellite, ti passavano il segnale e si accendeva l'antenna sull'Eurovisione di Ginevra, avevi a disposizione tre-quattro minuti e dovevi essere prontissimo, altrimenti era finita. Ripeto, io credo che la scuola più pressante per la nostra professione siano la cronaca e lo sport. Stai in giro per strada tutti i giorni, come sa chi è stato per anni a Formello o a Trigoria. Anche io, per quattro-cinque anni, ho avuto l'incarico di seguire la Roma, ai tempi di Dino Viola. A livello professionale, mi ha sempre fatto piacere quando la gente mi chiedeva "Ma tu di che squadra sei?", perché significa essere in grado di scindere la passione personale dal lavoro.
Il giornalismo in cui si è fatto le ossa Pietro Pasquetti, figlio di una generazione di nomi importanti della cronaca sportiva, era completamente diverso da quello attuale: innanzitutto perché era ancora di là da venire l'epoca delle pay-tv e dell'offerta informativa 24 ore su 24; in secondo luogo, perché esisteva un modo di relazionarsi con i calciatori totalmente differente:
Il rapporto con i giocatori era diretto: andavi al campo di allenamento per intervistarli e, se ti rispondevano di no, era semplicemente perché in quel momento magari erano stanchi e non avevano voglia di parlare. L'addetto stampa c'era, ricordo Mimmo De Grandis, Mario Pennacchia, ma il rapporto con i calciatori era diretto. Poi potevi vedere sempre allenamento, non c'erano troppi divieti. Anche per quanto riguarda la sala stampa dell'Olimpico, la situazione era la stessa: all'epoca il Tg regionale aveva l'esclusiva come televisione, avevamo una stanza per conto nostro, ma non esisteva certo la mixed zone, chi passava si fermava a parlare. Con la mia generazione, certo, inizia un pochino il cambio con tv e radio, ma comunque le emittenti locali si contavano sulla punta delle dita, in gran parte c'erano i giornali. Nella pancia dell'Olimpico ero in compagnia di grandi firme come Walter Gallone, Alberto Dalla Palma o come Alessandro Vocalelli (attuale direttore del Corriere dello Sport ndr), che è della mia generazione: con lui andai come inviato in Turchia a incontrare Can Bartu, che aveva giocato alla Lazio negli anni '60.
Come fosse un segno del destino, nel periodo in cui Pasquetti muoveva i primi passi nel mondo del giornalismo sportivo, i primi anni '70, la Lazio scoprì il sapore intenso della vittoria, arrivando a salire sul tetto d'Italia nel 1974. Quella era la Lazio di Tommaso Maestrelli, di Capitan Wilson, di Luciano Re Cecconi e di Giorgio Chinaglia:
Nell'anno dello Scudetto vidi tutte le partite. Il giorno di Lazio-Foggia, quando vincemmo il Tricolore, un amico con cui ero andato allo stadio fu tra quelli che scesero in campo a rincorrere i giocatori... mentre la moglie stava partorendo all'ospedale. Per quanto riguarda il Chinaglia calciatore, l'ho vissuto più da tifoso, ero alle prime armi con il lavoro. Da cronista, invece, ho avuto modo di seguirlo nel suo periodo da presidente, lo intervistai in numerose occasioni. Io credo che il rapporto tra Giorgio e la Lazio sia racchiuso nella frase che la Curva Nord ha scritto in occasione di Lazio-Napoli (la partita dello scorso 7 aprile che seguì alla morte di Chinaglia ndr): "Nonostante tutto...". Dietro agli errori che ha commesso, secondo me c'è stata la sua ingenuità, la sua spontaneità unita alla poca esperienza. E' stato messo in mezzo da gente, diciamo, più 'furba' di lui. Per me rimane un grande calciatore e, tutto sommato, una persona onesta e per bene. L'unico dispiacere che si è portato dietro è quello di non essere tornato in Italia. Fece un po' di casini quando diventò presidente, richiamando Juan Carlos Lorenzo (che aveva già allenato la Lazio negli anni '60 ndr), il quale non conosceva più il calcio italiano. La sua esperienza finì male, non bastò il carisma legato al suo nome, ci rimise anche a livello economico. Il suo ritorno, tuttavia, contribuì a riportare grande entusiamo nel popolo laziale, proprio nel momento in cui, dall'altra parte, la Roma era diventata forte e vinceva lo Scudetto. Con lui, nella gente biancoceleste era rinata la speranza. Una cosa che non tutti ricordano, è che lui era vice-presidente della Warner Bros, ma non riuscì a coinvolgerla nell'acquisto della società.
Dalla scomparsa di Chinaglia, sono ormai trascorsi due mesi. Il suo addio è forse coinciso con il periodo in cui i tifosi biancocelesti sentono maggiormente figure che, soprattutto a livello societario, incarnino la lazialità autentica:
Questo è l'errore che ha fatto Lotito, sembra quasi che si abbia paura a circondarsi di gente laziale; inoltre c'è anche questo rapporto conflittuale con i tifosi. Secondo me la società sbaglia a non far crescere la lazialità il più possibile, perché questo vuol dire anche fidelizzazione del tifoso. Una buona iniziativa è quella dei calciatori che visitano le scuole, ma è ancora poco. La presenza di figure laziali è fondamentale. La grande cosa che fece Sergio Cragnotti fu portare alla presidenza della Lazio uno dei simboli più grandi del calcio italiano, Dino Zoff, una persona fantastica, che sta sui francobolli della Federazione. Il suo nome è conosciuto dall'Argentina al Giappone. Secondo me, non sarebbe neanche necessario nominare allenatori o dirigenti personaggi di questo tipo, ma almeno sarebbe bello che questa gente venisse coinvolta dalla società. Lotito queste cose non le fa, forse soffre di luce riflessa come dice qualcuno.
Volendo un po' immaginare le iniziative che si potrebbero adottare per coltivare il rapporto con la storia laziale, Pasquetti guarda in particolare all'estero:
Un'idea che ho sempre avuto è quella che attua il Real Madrid: i soci vip, che non pagano nemmeno allo stadio. Ora loro possono permettersi Alfredo Di Stefano come presidente della fondazione, il capitano di una squadra che per cinque anni di seguito ha vinto la Coppa dei Campioni e che ha perso una sola partita: vennero sconfitti a Dortmund per 3-0, l'allenatore Muñoz s'infiuriò con tutti per la figuraccia fatta, ma Puskas e Di Stefano gli dissero: "Mister, non ti preoccupare che vinciamo a Madrid"... e vinsero 5-0 la partita di ritorno. Oggi, invece, non c'è più un personaggio di quel livello. Ma perché non si fa qualcosa legato alla lazialità a livello di società? La domenica a Manchester, gente come Bobby Charlton sta in tribuna. Noel Gallagher (ex leader degli Oasis, insieme al fratello Liam ndr) si guarda le partite del Manchester City in ogni angolo della Terra e quando è a casa assiste alla gara allo stadio, perché lo sceicco lo porta in tribuna d'onore. Non so se abbiamo gente di quello spessore, però un po' di personaggi che facciano da vetrina all'Olimpico ci dovrebbero essere. Gli dai il biglietto, non perché non se lo possano permettere, ma perché li devi invitare e farli sentire parte di una grande famiglia. La Lazio ha delle persone da poter coinvolgere. Nelle scuole, per esempio, oltre ai calciatori di oggi sarebbe efficace anche quelli di una volta, che sono la memoria storica e fanno da collante tra una generazione e l'altra. Uno come Mario Facco, per esempio, che è stato allenatore della 'mia' nazionale, quella dei giornalisti Rai, una volta mi disse: '"Nonostante che per quattro volte sul tabellone luminoso di San Siro lessi il mio nome - perché lui è stato il capitano della Primavera dell'Inter Campione d'Italia e in alcune occasioni giocò al posto di Tarcisio Burgnich - nel cuore, nell'anima mi è rimasta la Lazio". Un altro è Vincenzo D'Amico, uno che sarebbe stato come Rivera se avesse avuto la sua testa: Vincenzo avrebbe potuto giocare in Nazionale per dieci anni, in campo con la palla faceva quello che voleva, aveva certi numeri che nessuno gli ha insegnato, gliel'ha dati il Padreterno. Questi personaggi ci sono. Pensate se una domenica si riportasse allo stadio Paul Gascoigne, l'Olimpico diventerebbe un finimondo!
Oltre alle figure storiche che hanno fatto grande la Lazio, Pasquetti volge lo sguardo anche ai quella schiera di personaggi "vip", soprattutto internazionali, che hanno espresso la propria simpatia per i colori biancocelesti:
In Svezia c'è Magnus Carlsen, numero uno al mondo degli scacchi, un ragazzo di 21 anni. Intervistato da un settimanale italiano, alla domanda "Come ti tieni in forma?", ha risposto: "Corro e gioco a calcio con una squadra di dilettanti del mio Paese". Quindi gli è stato chiesto che squadra tifasse, lui ha detto il Real Madrid, ma tra le squadre italiane ha risposto: "La Lazio". Se fossi la Lazio, manderei qualcuno in Svezia a intervistarlo per il sito o la televisione ufficiale. Oppure una domenica inviti Oscar Pistorius allo stadio e gli regali una targa: pensate a una foto con lui vestito con la maglia della Lazio che riceve una targa, farebbe il giro del mondo. Anche perché, nel calcio di oggi non contano più solo le vittorie, ma pure come viene gestita l'immagine a livello di merchandising.
Nel mondo Lazio, in alcuni casi, si rintraccia anche una certa ritrosia in alcuni personaggi famosi a esternare la propria fede. Secondo Pasquetti, anche questo è un discorso che rientra tra i piani a cui dovrebbe pensare la società:
Se tu li coinvolgi in qualche maniera, non è che loro abbiano problemi a esporsi, secondo me queste figure s'impegnerebbero. Ecco perché si dovrebbe pensare a un'iniziativa in cui coinvolgere personaggi di tutte le categorie. Poi magari uno tra questi lo nomini presidente onorario. Prendi per esempio Antonio Buccioni, presidente della Polisportiva e memoria storica della Lazio, e gli fai fare il segretario generale di questa iniziativa. In questo modo si creerebbe anche una rete di contatti: se per esempio nel Lazio ci sono trenta sindaci tifosi biancocelesti, con la rivista ufficiale li vai a intervistare uno per uno. L'obiettivo dovrebbe essere quello di creare una grande famiglia, come avviene all'estero, soprattutto in Inghilterra. Io ho condotto per un anno una trasmissione in cui portavamo in studio un ex romanista e un ex laziale della storia. Ho portato per esempio Uber Gradella, aveva 89 anni quando è venuto ed era ancora lucidissimo. E' uno che ha smesso di giocare perché non voleva andare via dalla Lazio, uno che ha giocato con Silvio Piola. Pensate che noi non abbiamo niente intitolato a quello che è stato il più grande attaccante italiano di tutti i tempi. Come fai a non intitolargli nulla? Un altro è Fausto Coppi, che ha corso con addosso la maglia della Lazio. Una volta, per esempio, mi capitò di seguire una partita di baseball e intervistai Giulio Glorioso, capitano della Nazionale, unico italiano ad andare a giocare negli Stati Uniti. Personaggi del genere vanno cercati, penso anche a Filippo Bargnani, che ha sempre detto di simpatizzare per la Lazio.
Anche nel passato recente, Pasquetti indivua tanti protagonisti che sono cresciuti in maglia biancoceleste o che la Lazio hanno contribuito a renderla grande:
Uno è Marco Di Vaio. Il nonno era amico di mio padre, faceva il robivecchio ed era laziale perso, andava in giro con la sua Ape con un'aquila incollata allo sportello. Ma a Roma abbiamo avuto uno come Sinisa Mihajlovic, che ora allena la Serbia: perché non gli hai affidato la panchina della Lazio? Quando Sinisa giocava a Roma, c'era un proprietario di cavalli che aveva chiamato un suo cavallo proprio Sinisa Mihajlovic. Io li feci incontrare, abbiamo anche fatto un servizio a Capannelle. Poi penso a Paolo Di Canio: quando andò via dalla Lazio, fui io a intervistarlo. Lui non voleva assolutamente andare via, la sua lazialità è fuori discussione. Un altro è Alessandro Nesta: quando Luca Baraldi fece spalmare gli stipendi, dopo che lui già era andato al Milan, Nesta rifiutò ben 1,3 miliardi di lire che gli erano dovuti. Il Milan gli ha dato tutto a livello sportivo, ma la Lazio è la sua vita fin da bambino.
Nelle parole di Pasquetti, i nomi snocciolati sono tanti, tutti prestigiosi, arricchiti dalle sensazioni di uno che il grande calcio l'ha vissuto, in un certo senso, da protagonista, con il microfono in mano. Nel corso della sua carriera, sono stati tanti i personaggi da lui intervistati, molti dei quali possono provocare emozioni anche in un professionista affermato come lui:
Vi posso garantire che nemmeno con Maradona mi ha mai tremato il microfono, ma mi è successo solo due volte in carriera di sentirmi emozionato. Una volta, durante Italia '90, andai a seguire gli allenamenti dell'Irlanda del Nord, che si allenava all'Olimpico in vista della partita. Li allenava Jackie Charlton, il centro-mediano dell'Inghilterra Campione del Mondo nel 1966. A un certo punto dico all'operatore, Vincenzo, che purtroppo non c'è più: "Guarda, quello è Bobby Charlton!", il fratello di Jackie. Stava seduto solo in tribuna, poco più sotto i giornalisti che vedevano l'allenamento. Dico a Vincenzo: "Andiamo, se non è lui al massimo facciamo una figuraccia". Quindi lo raggiungemmo, io mi presentai: "I'm Pietro Pasquetti, Rai, italian television" e gli chiesi un'intervista. Lui mi disse una sola cosa: "Basta che non parliamo dell'Irlanda". La seconda volta che mi emozionai, invece, fu con lo stesso Di Stefano, quando la Lazio giocò a Roma con il Real Madrid. Gli chiesi se potevo intervistarlo, capiva l'italiano... Sapete che il Real è l'unica squadra al mondo che ha l'aereo di proprietà, il 747, tutto bianco con un fulmine rosso e la scritta "Saeta rublia", ovvero il soprannome di Di Stefano?
Attualmente, Pasquetti è alla vice-direzione del Tg3, il campo non lo segue più come una volta, ma la sua attenzione da esperto cronista, unita alla forte passione per i colori biancocelesti, non gli hanno mai fatto smettere di vivere il mondo Lazio fino in fondo. A giugno si è ormai entrati nel vivo della fase preparatoria che porterà alla nuova stagione, ma è doveroso anche fare un bilancio del campionato terminata da poco meno di un mese:
Alla stagione appena terminata dò un 7 abbondante, ma con tanto rammarico, perché si poteva fare di più, sarebbe bastato poco. Il rammarico è aver mancato la Champions League: per come si era comportata la squadra e, diciamo la verità, per la mediocrità di questo campionato, la Lazio aveva tenuto in pugno il terzo posto per mesi e mesi; però l'ha buttato, in un momento di difficoltà, non c'è dubbio, dovuto ai tanti infortuni, però è mancata soprattutto la testa e l'aiuto da parte della società. Quando a gennaio la squadra doveva essere puntellata, al contrario è stata smontata, perché se dai via Cisse, Sculli e Stendardo, devi trovare dei rinforzi.
Un bilancio della stagione appena trascorsa vuol dire anche esprimere un giudizio sull'operato dell'ormai ex allenatore biancoceleste Edy Reja:
Di Reja ci rimane il ricordo di una persona onesta, che più di quello non può fare, perché è un uomo di un altro calcio, però ha avuto il merito di unire il gruppo, di tenere compatta la squadra anche nelle diaspore tra società e settore tecnico. Ripeto, il rammarico per questa stagione c'è, ma tutto sommato è positiva: lo scorso anno sei arrivato quinto, quest'anno quarto, un piccolo passo avanti è stato fatto. Hai avuto la fortuna di scoprire giocatori come Lulic, c'è stata la conferma di Gonzalez e la fortuna di aver preso quella stella del calcio europeo che è Miroslav Klose, uno che ti ha dato sicuramente lo spessore. Io credo che la Lazio non sia attrezzata per competere per lo Scudetto, però questa è una squadra che, con l'ossatura di quest'anno più quattro innesti giusti, se la può giocare. Il Milan e la Juventus aveva qualcosa in più di tutti, secondo me anche l'Inter ma non ha saputo farsi valere, però una Lazio puntellata un po' meglio avrebbe potuto arrivare a ridosso delle prime, qualificandosi in Champions.
L'era Reja, però, ormai è un capitolo chiuso: adesso è ufficialmente iniziata quella di Vladimir Petkovic, allenatore fino a pochi giorni fa sconosciuto ai più, che è arrivato a Roma tra lo stupore e la curiosità. Il giudizio di Pasquetti non può che essere sospeso, in attesa di vederlo all'opera, ma la sua scelta sarebbe stata sicuramente diversa:
Non lo conosco, spero che quanto ho letto corrisponda a verità, ma io avrei puntato su un allenatore italiano.
In questi giorni, però, in casa Lazio ha tenuto banco un altro argomento, purtroppo dai contorni drammatici e che con il calcio giocato ha poco a che vedere: lo scandalo calcioscommesse e l'arresto di Stefano Mauri:
Un durissimo colpo, ma spero che Mauri possa dimostrare la propria innocenza. In Italia ci sono tre gradi di giudizio e vale la presunzione d'innocenza. In ogni caso non dobbiamo fare né i tifosi né gli ipocriti: se c'è qualcuno che ha sbagliato è ora che vada via. Io ho sempre confidato nella magistratura e nella giustizia sportiva, spero che arrivino fino in fondo per ripulire il calcio da tutto il marcio. Poi da tifoso che devo dire? Capitano tutte a noi! Ormai ci ho fatto il callo, ma ora dobbiamo unirci attorno all'unica cosa che conta e che ha sempre contato: il simbolo della Lazio.
Sullo sfondo, poi, c'è sempre la questione stadio, con l'accordo tra la Lazio e il Coni sull'Olimpico che, dopo un braccio di ferro estenuante, sembra essere arrivato a conclusione. E poi la proposta ad alto tasso di romanticismo avanzata dall'Assessore allo Sport del Comune di Roma, Alessandro Cochi: portare la Lazio a giocare allo Stadio Flaminio. A Pasquetti l'idea stuzzica, ma preferisce essere realista:
La proposta è intelligente, ma i tempi sono lunghi e i costi sono alti, non credo si farebbe in tempo per questo campionato. Io non so bene come sia fino in fondo la diatriba tra la Lazio e il Coni, però io ho una grande stima di Gianni Petrucci, secondo me è il più grande dirigente che abbia mai avuto lo sport italiano, dopo Giulio Nesti, è uno che non parla mai a vanvera e poi è laziale... non è amico di Lotito, ma è laziale.
La chiacchierata con Pietro Pasquetti, ricca di aneddoti, di proposte, di riflessioni mai banali è ormai giunta al termine. L'ultima battuta che ci riserva prima di salutarci è sul parere personale che nutre nei confronti della gestione Lotito, alle porte della sua nona stagione da presidente della Lazio:
Lui ha avuto il merito di tirare la Lazio fuori da un mare di guai, proprio con la sua irruenza, con il suo modo di fare. Però mi dà l'impressione che, arrivato a questo livello, non riesca a fare ancora il salto di qualità. Con questa dirigenza, la Lazio non riesce a fare questo salto, è come la parabola economica: quando parti da zero, a settanta ci arrivi facilmente, il problema poi è arrivare a cento. Noi a settanta ci siamo arrivati, ma non credo che questa società sia in grado di portare la Lazio a cento. Io corro il rischio, per l'età che ho, di non vedere più uno Scudetto. Quest'anno sono mancati un forte difensore centrale, un centrocampista d'incontro, una punta di spessore da mettere vicino a Klose. Quindi ora si dovrebbe ripartire da queste cose, senza vendere, perché sennò non cresci mai. A me però, più che poter arrivare a un livello più alto, piacerebbe che ci fosse chiarezza da parte della società, vorrei che si dicesse: "Questo è il livello, un anno lottiamo per la Champions, un altro non possiamo arrivarci, comunque vi garantisco che rimaniamo in Europa, poi se ci dice bene un anno possiamo anche lottare per lo Scudetto". Sarebbe importante dirlo, senza dare invece l'impressione che questo salto di qualità non lo vuoi fare.
Gettiamo un occhio all'orologio, sono passate poco meno di due ore. Parlare di Lazio, della sua storia, dei grandi nomi che l'hanno onorata ha come effetto collaterale quello di sospendere il tempo. Da quando abbiamo acceso il registratore, sembrano passati neanche dieci minuti. Ecco, è proprio questa la sensazione che abbiamo vissuto in compagnia di Pietro Pasquetti: che la storia ultracentenaria della Lazio, nutrita da rare ma incredibili vittorie, sconfitte cocenti ma da cui ci si è sempre rialzati, scorra leggera e senza tempo nella mente di chi la rivive. Leggera come il volo di quell'aquila che, il 9 gennaio 1900, ha schiuso le ali per librarsi in volo.