Chinaglia, mito di un popolo e vanto di una generazione: "Di Lazio ci si ammala inguaribilmente", di lui i Laziali si erano innamorati irrimediabilmente

Chissà se il tuo ultimo pensiero è stato per lei. Sicuramente in quei momenti, mentre lo spirito ti abbandonava, un pensiero a quei colori l’hai mandato. Ti eri messo a letto ieri, su questo ci possiamo mettere la mano sul fuoco, pensando a che occasione aveva sprecato la tua Lazio perdendo a Parma. Perché nonostante tutto, la Lazio era lì, dentro di te, indelebile. Tu, Giorgio Chinaglia, eri la Lazio. C’è poco da discutere, poco da girarci intorno. “C’è Chinaglia, poi gli altri”. Questa frase, l’avranno sentita tutti i giovani Laziali dai propri padri, dai propri nonni. Raccontare la storia di Chinaglia sarebbe lungo, difficile. Long John è stato uno degli attaccanti più importanti del nostro calcio, uno dei più forti nella storia della Lazio. In biancoceleste segnò 98 gol in 209 presenze. Era il figlioccio di Maestrelli, il suo pupillo, era il condottiero di una squadra bella quanto sfortunata, la prima a cucire il tricolore sulle maglie della Lazio. Ha tanti meriti Giorgio: meriti guadagnati sul campo, conquistati in quella cavalcata che portò la Lazio, in 24 mesi, dalla B allo Scudetto. Chinaglia era il prototipo del centravanti: potente, carismatico, generoso, con un senso del gol pazzesco. Un campione, sottovalutato, forse perché come le stelle più luminose, quella Lazio fu accecante ma si spense troppo presto: prima Maestrelli, poi Re Cecconi, la storia di quella squadra s’interruppe in pochi mesi e lì iniziò il suo mito. Una banda di scalmanati, una squadra che portava le pistole sotto il cappotto, che giocava le partitelle come fossero guerre perché divisa in due clan, ma unita in unico blocco la domenica, bella da far girare la testa: un riassunto dei ’70 italiani. Una metafora perfetta dell’epoca che si viveva.
Chinaglia è stato il simbolo di quella Lazio pazza e romantica, folle e vincente. Della Lazio più bella. Long John è stato, molto probabilmente, il giocatore più importante nella storia biancoceleste e questo “titolo”, lo merita per dei motivi molto semplici: più di ogni altro ha incarnato lo spirito del tifoso. Giorgio faceva, in campo, quello che ogni sostenitore Laziale sognava lì sugli spalti. La corsa con quel dito puntato verso la”Sud”, è un atto di sfida, di sfrontatezza, tipico di Chinaglia, un gesto che fece impazzire un popolo e che ancora oggi inorgoglisce il tifoso di 60 anni così come quello di 18. Con il mito del “numero 9” sono cresciuti tanti laziali, un’intera generazione che di lui si è innamorata inguaribilmente. Di lui che sbucava dal tunnel, prima di un derby, per far vedere il suo piede ai romanisti, il piede con cui, poi, avrebbe segnato e ammutolito gli insulti e le ingiurie che piovevano dalla curva rivale. Era un eroe laziale Giorgio, si era conquistato l’amore del suo popolo grazie alla sua personalità, ai suoi gol, al suo essere sempre pronto a caricarsi la squadra sulle spalle. Più di ogni altro giocatore, lui, ha riempito lo spirito dei laziali di orgoglio e fierezza, ha consentito alla sua generazione di andare in giro per Roma non solo a testa alta, ma anche con sguardo indomito e ghigno irriverente. Perché Giorgio, come la sua amata, aveva cuore ed anima, sapeva esaltarsi nei momenti difficili, tirare fuori proprio in quegli attimi ogni risorsa e sbranare l’avversario. “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”, urlavano i tifosi. Pensavate fosse uno slogan e basta? Macché, per Chinaglia quei ragazzini, ora cinquantenni, sarebbero stati pronti a fare la guerra, a scontrarsi tra i banchi di scuola pur di difendere il nome del mito. Quella generazione, quei Laziali, forgiati con il suo nome sulla pelle e nel cuore, loro sono la più grande vittoria di Giorgione. Loro che, in certe zone di Roma, dove il giallorosso prevale nettamente, avevano lui per affrontare e spaventare i cugini. Sì perché se per una parte di Roma, Chinaglia, è stato un eroe, per l’altra era un incubo. E’ stato il giocatore della Lazio più temuto dai romanisti e questa, per lui, fu un’altra piccola vittoria. Ora Chinaglia non c’è più e sembra incredibile che lui, così forte, possente, possa aver ceduto alle bizze del suo cuore. Se n’è andato in silenzio, all’improvviso e lascia un vuoto incolmabile in una storia che aveva contribuito a scrivere. Ora Giorgione se ne volerà lassù, dal Maestro, da Umberto, da Cecco, Frustalupi e Polentes, da Bob di cui, proprio un anno fa, si celebravano i funerali. La Lazio è questa, è una metafora della vita, fatta di coincidenze difficili da razionalizzare, di gioie immense che diventano, in un attimo, difficoltà da affrontare con tutta la forza del mondo. Ora Giorgione non c’è più e vallo a spiegare quei ragazzi, ora cinquantenni, che su di lui avevano costruito una giovinezza. Sì perché con loro se ne va un pezzo della loro vita, oltre che un pezzo, immenso, di storia della Lazio. Long John si è spento, la luce negli occhi di chi lo ha amato più di ogni altro, però, non si affievolirà mai, durante i racconti delle sue gesta e quell’albore continuerà a brillare e far sembrare quegli occhi, adulti e attempati, quelli di un bambino sognatore e incantato. “Di Lazio ci si ammala inguaribilmente”, diceva Chinaglia, in uno slancio di puro amore per i colori che abbracciò nel ’69 e non smise più di adorare. Per questo, di lui, un’intera generazione, e poi quelle a seguire, si sono innamorate irrimediabilmente. Per questo lui era il mito. Addio Giorgio’.