Lazio, Nesta racconta tutto: "Gli inizi, lo Scudetto, Eriksson e il mio addio..."

L'ex difensore e ora allenatore Alessandro Nesta è intervenuto nel podcast 'Passa dal BSMT' di Gianluca Gazzoli parlando degli inizi della sua carriera, delle vittorie e del suo addio alla Lazio. Di seguito le sue parole.
IL RIFIUTO ALLA ROMA - “L’offerta della Roma? È tutto vero, mio padre l’ha rifiutata. Andiamo fieri di questa cosa. Io vengo da una famiglia lazialissima, abitavamo a Cinecittà che è un quartiere popolare storicamente romanista. Noi eravamo segnati perché tifosi della Lazio. Per la finale di Coppa dei Campioni della Roma contro il Liverpool, il palazzo aveva deciso di fare la coreografia per la partita e ogni balcone doveva mettere un pezzo. Hanno bussato anche a casa nostra, c’erano due tipi un po’ particolari che mio padre ha dovuto far entrare. Però poi dopo hanno perso (ride, ndr.). Io a otto anni giocavo nel Cinecittà, una società affiliata alla Roma. Loro mi volevano prendere, ma mio padre mi porta a San Basilio fare un provino con la Lazio dopo aver letto un annuncio sul Corriere dello Sport. C’erano quasi duecento bambini, prendono me e un altro. Da lì è iniziata la mia storia con la Lazio. Per mio padre e per tutta la mia famiglia era un sogno, ed ero piccolissimo. Pensa quando ho fatto l’esordio in Serie A (ride, ndr.), con mio fratello che andava in Curva”.
GLI INIZI ALLA LAZIO - “A Roma il calcio è follia, giocare lì è pesante. Vivere la città era complicato, solo a Milano riuscivo a uscire. A Roma non lo facevo mai, in giro mi capitava spesso che qualcuno veniva a dirmi qualcosa, a volte anche faccia a faccia a brutto muso per litigare. Quando sono arrivato in prima squadra, il presidente Cragnotti ha iniziato a mettere i soldi e sono arrivati i primi trofei. Io mi ponevo sempre un obiettivo superiore, avevo tanta ambizione. Questo è forse quello che manca alla generazione di oggi. In Primavera giocavo mezzala, sono diventato un difensore centrale solo dopo. A giocare dietro mi ha convinto Zeman, che mi ha sfondato ma mi ha anche cambiato la vita. A 17 anni mi ha detto che avrei fatto il titolare della Lazio. Ho iniziato a crederci quando ho visto che in campo andavo bene. A vent’anni sono diventato il capitano, ma non ero pronto per quel ruolo, 5-6 anni dopo magari lo sarei stato di più. La mia famiglia era contentissima, era tutta una festa".
ERIKSSON - "Eriksson? Non lo sentivo tanto, ma ho avuto l’occasione 5-6 mesi prima che morisse di vederlo in un Sampdoria - Reggiana, quando allenavo in Serie B. Mi ero ripromesso di non piangere, ma appena l’ho visto sono crollato. Lui mi ha detto che era tranquillissimo, aveva una serenità pazzesca. Per me è stata una persona speciale”.
LO SCUDETTO DEL 2000 - “Lo Scudetto del 2000? L’anno prima ne abbiamo buttato uno folle. La mia Lazio aveva un gruppo di grande talento, ma non pronto mentalmente. La stagione dopo l’abbiamo vinto noi, con quella giornata stranissima con Perugia - Juventus. Io ero squalificato, sono andato allo stadio a vedere la nostra partita contro la Reggina ed ero sicuro che la Juventus avrebbe vinto. Per questo dopo il triplice fischio me ne sono andato a casa. Mentre ero in macchina però ho sentito del gol di Calori e sono tornato indietro verso l’Olimpico. C’era tutta la gente in campo, poi è successo quello che è successo, come in un film. L’anno prima anche lo meritavamo, ma l’abbiamo perso noi. Quello del 2000 ce l’ha dato il Signore”.
IL DERBY TRA MILANO E ROMA - "Il derby è meglio quello di Milano perché è più tranquillo. Quello di Roma ti mette troppa pressione, non dormi più. Io non sono mai stato così male: ho fatto finali e semifinali di ogni tipo, ma la tensione che mi metteva il derby di roma non me l'ha mai messa nessun'altra partita. A Roma quando vinci è tutto bello, c'è tanto amore e gioia, ma quando perdi escono fuori molti problemi, c'è sempre una sensazione di sconforto e negatività. Non si poteva nemmeno andare a cena fuori, dovevo stare chiuso in casa".
IL DERBY PERSO 5-1 - "Nel derby perso 5-1 ho fatto un casino sono uscito al primo tempo perché non ci stavo capendo più nulla, non avevo retto mentalmente. Il giorno prima la società mi aveva detto che mi voleva vendere e che dovevo andare via, ma io ero comunque deluso da me stesso perché non avevo retto. Montella mi aveva fatto tre gol, lì ho pensato che per superare una sconfitta dovevo tirare fuori qualcosa di incredibile. Sono riuscito ad andare avanti solo riuscendo a tirare un rigore in una finale di Champions League con il Milan, contro la Juventus".
L'ADDIO ALLA LAZIO - “Io non volevo andare via dalla Lazio, mio padre pure ha sofferto tanto. L’anno prima che andassi al Milan mi aveva chiamato il Real Madrid dopo un’amichevole contro di loro, un giocatore mi disse che dovevo andare a giocare da loro. Io gli ho risposto che giocavo alla Lazio, mi ha preso per pazzo. L’anno dopo invece sono stato costretto ad andare via, non prendevamo lo stipendio da otto mesi. C’era un casino enorme nello spogliatoio, mi avevano già comunicato che sarei dovuto andare da un’altra parte. Avevamo capito che c’erano grandi problemi e che potevamo anche fallire. L’ultimo giorno di mercato è andata avanti la trattativa con il Milan. Un po’ di mesi prima mi aveva chiamato la Juventus, ma non ci volevo andare. Poi c’era anche l’Inter, che dopo il 5 maggio 2002 è sparita e non mi ha più voluto. Ero sicuro che l’Inter l’anno dopo avrebbe vinto lo Scudetto, per questo non volevo andare al Milan. E invece mi è andata bene”.
L'ARRIVO AL MILAN - “Il primo giorno che sono arrivato a San Siro che mi presentavano prima di un’amichevole, mi ha aperto lo sportello un capo tifoso. A Roma c’era sempre una marea di gente, quando c’erano le contestazioni dovevi girare con il casco da battaglia. I primi sei mesi a Milano ho fatto schifo perché non ci volevo stare. Mi mancava tutto. Noi romani siamo un po’ chiusi, abbiamo questo difetto. Alla fine lì ho passato i dieci anni più belli della mia vita".
IL NUOVO STADIO DELLA LAZIO - "Chi ha comprato San Siro ha fatto un affare! Gli stadi nuovi servono, i nostri fanno schifo. In USA? Zero problemi, non hanno burocrazia, i soldi ci sono e da un giorno all'altro tirano su uno stadio da un miliardo: noi nel frattempo ci perdiamo in firme... A Roma c'era un progetto sullo stadio della Lazio, alla presentazione del modellino io facevo la Primavera, ancora stanno ai modellini (ride, ndr). La burocrazia ucciderà questo paese, bisogna andare all'estero per capire come si deve vivere. Bisogna andare avanti, sennò torniamo a giocare al Colosseo".
IL RAPPORTO CON TOTTI - “Prima non potevo essere amico di Totti, solo ora. Questo è il limite di Roma. Mi è capito adesso di uscire con De Rossi, non ci ha detto nulla nessuno (ride, ndr.). Io ero il capitano della Lazio, la gente si aspettava che litigassi con Totti o con qualcun altro, ma non ero così, non me ne fregava nulla. Io a Totti gli voglio bene, è un grande”.
ALLENARE LA LAZIO - "Se sogno mai di allenare la Lazio? Da una parte sì e da una parte no. È l'unica squadra che mi toglierebbe il sonno se dovessi allenarla, perché sentirei troppo la responsabilità. Se dovesse capire un giorno, vediamo".
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